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1 di 10 Domande

Il Sig. Versici, un uomo di circa 70 anni, si reca presso l’ambulatorio del proprio medico curante, Il Dott. Mancini, per un fastidio al polso destro. Anamnesi patologica prossima: lamenta dolore al polso destro da circa due giorni.
Anamnesi patologica prossima: positiva per due interventi di chirurgia sostitutiva dell'anca, due precedenti episodi di gotta in entrambe le prime articolazioni metatarso-falangee ed ipertensione. Esame obiettivo: il Dott. Mancini visitandolo riscontra la presenza di rossore e gonfiore sul versante dorsale del polso. La sintomatologia dolorosa viene esacerbata da movimenti di flesso-estensione completi. Gli vengono prescritti 80 mg di aspirina al giorno. Due giorni dopo il gonfiore però è aumentato sul versante dorsale del polso ed a livello della mano. La flessione del polso risulta limitata dell' 80% con dolore severo, pertanto il Sig. Versici si reca nuovamente presso l’ambulatorio del Dott. Mancini, che rivisitandolo nota che evoca un dolore sordo alla palpazione dello scafoide e pertanto nel sospetto di frattura gli prescrive un esame radiografico del polso/mano. Esami strumentali-laboratoristici: evidenza di alterazioni riconducibili ad un quadro di artrite gottosa. Quale tipo di citochine sono coinvolte in questo processo?

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La risposta corretta è la C.

La flogosi è un meccanismo di difesa di tipo aspecifico: infatti risponde all’agente lesivo sia di tipo fisico-meccanico, alle radiazioni, sia batterico, sia chimico. Quindi possiamo dire che il processo infiammatorio è un meccanismo di difesa che reagisce in maniera aspecifica a tutto ciò che provoca danno: è la risposta al danno tissutale. Quindi, il processo infiammatorio è un processo:

– Reattivo: quindi diverso dalla necrosi che è un processo regressivo,

– Aspecifico: ovvero avviene nei confronti di tutto ciò che produce danno,

– Stereotipato: cioè è sempre lo stesso qualsiasi sia la causa scatenante (naturalmente dicendo questo intendiamo che è uguale come meccanismi principali, con delle vie diverse a seconda del tipo di danno),

– Procede indipendentemente dalla causa: una volta innescato il danno, è il danno che innesca il processo infiammatorio il quale va avanti anche se la causa viene rimossa

Nella fase acuta è caratterizzata da un aumento del flusso ematico e della permeabilità vascolare insieme all’accumulo di fluidi, leucociti e mediatori della flogosi come le citochine. Durante questo processo, una serie di fattori solubili sono implicati nel reclutamento dei leucociti, mediante un aumento dell’espressione di molecole di adesione cellulare e fattori chemiotattici.

Diverse citochine giocano ruoli chiave nella mediazione delle reazioni infiammatorie acute, ovvero IL-1, TNF-α, IL-6, Il-8 e altre chemochine. Tra queste , IL-1 e TNF-α sono molecole estremamente potenti, sono le principali citochine che mediano l’infiammazione acuta. Sia IL-1 sia TNF- α sono in grado di innescare i meccanismi pirogeni, promuovendo la sintesi di PGE2 dall’endotelio vascolare dell’ipotalamo, causando la febbre.

L’IL-1 viene prodotta dai fagociti mononucleati attivati, macrofagi, neutrofili, cellule endoteliali e cellule epiteliali: la sua principale funzione è quella di regolare la risposta infiammatoria dell’ospite alle infezioni.; a basse concentrazioni induce le cellule endoteliali ad esprimere molecole di adesione leucocitaria, mentre ad elevate concentrazioni ha azione endocrina: induce febbre e sintesi delle proteine di fase acuta. Si differenzia dal TNF- α perché a livello sistemico non è in grado di indurre da sola uno shock settico.

Inoltre, IL-1 promuove il rilascio di istamina da parte dei mastociti. In seguito l’istamina determina una precoce vasodilatazione e un incremento della permeabilità vascolare.

Durante l’infiammazione, si verificano una serie di processi:

1) le modificazioni del flusso e del calibro vascolare, che portano all’aumento del flusso sanguigno,

2) Le modificazioni del microcircolo e la formazione dell’essudato infiammatorio

3) il richiamo (chemiotattico) del leucocita all’azione

4) la fagocitosi

Le modificazioni del flusso e del calibro vascolare iniziano subito dopo lo stimolo lesivo. Ad una  vasocostrizione arteriolare transitoria (dura pochi secondi) ed incostante (non sempre presente) segue una

vasodilatazione intensa dapprima arteriolare poi coinvolgente tutto il microcircolo. E’ la fase

dell’iperemia attiva, con aumento del numero dei capillari pervi ed aumento del flusso ematico, cui corrispondono il rubor ed il calor. L’evento successivo è il rallentamento della circolazione che introduce alla fase dell’iperemia passiva (o stasi), causato dall’aumento di permeabilità dei capillari con l’essudazione di liquido ricco di proteine (essudato) dai vasi nei tessuti extravascolari dell’interstizio. Aumenta la viscosità del sangue (rappresentato dalla presenza di globuli rossi fittamente stipati nei capillari dilatati). Pertanto il modello fondamentale della risposta infiammatoria acuta si caratterizza per la seguente serie di eventi  in corrispondenza del danno locale:

– modificazioni del flusso e del calibro vascolare,

– iperemia attiva e passiva,

– permeabilizzazione endoteliale e formazione dell’essudato,

– migrazione dei leucociti nell’interstizio e accumulo nel focolaio della lesione (chemiotassi).

– fagocitosi.

La chemiotassi dei leucociti è definibile semplicemente come un movimento orientato lungo un gradiente chimico. I chemoattraenti possono essere esogeni (prodotti batterici) o endogeni (frazioni del sistema complementare, leucotrieni, citochine). Mentre la stasi è in atto, si nota un orientamento periferico dei neutrofili, lungo l’endotelio dei vasi (marginazione): normalmente i leucociti stanno al centro del flusso ematico, in questo caso vanno invece alla periferia prendendo contatto con l’endotelio vascolare.

Alla marginazione segue l’adesione, i leucociti rotolano sull’endotelio perché iniziano a verificarsi fenomeni di adesione, inizialmente labili (con precise molecole di adesione implicate), poi più “avidamente” con un vero e proprio ancoraggio e arresto, in modo da formare una “pavimentazione”.

Infine avviene il passaggio attraverso l’endotelio (diapedesi) sino all’interstizio, in cui segue la migrazione verso lo stimolo chemiotattico.

L’endotelio normalmente è chiuso, continuo e liscio, ma nel processo infiammatorio c’è un allargamento delle maglie dell’endotelio con aumento della permeabilità, inoltre l’endotelio è attivato ed espone molecole di adesione: ci sono molecole di adesione contenute in corpiccioli intracellulari e pronte ad essere espresse sulla superficie cellulare (come la P-selectina) quando raggiungono siti infiammati e che consentono un legame labile.

Le molecole di adesione principali sono:

− selectine E, P, L = le loro porzioni N-terminali extramembrana legano zuccheri:

− P (GMP140) è presente sull’endotelio quando c’è infiammazione. La P-selectina è presente sui corpi di Weber-Palade all’interno delle cellule endoteliali e durante l’infiammazione viene esposta sulla membrana cellulare e  media legami labili (rotolamento);

− E (Elam1) è presente sull’endotelio,

− L (Lam1) è presente sui leucociti.

− Immunoglobuline: ICAM-1 (molecola di adesione intercellulare), VCAM-1 (molecola di adesione vascolare): interagiscono con le integrine situate sui leucociti. Le ICAM-1 si legano alle integrine della famigliaβ2.

− VCAM-2 sono molecole proprie dell’endotelio,

− integrine: poste sui leucociti sono già presenti, ma hanno una conformazione poco affine al legame, perciò modificano la loro conformazione quando si trovano a contatto con chemochine, nel momento in cui è aumentata la sintesi di ICAM e VCAM-1. Ciò aumenta l’avidità di legame e si ha una fase di ancoraggio stabile.

– le citochine (IL-1, TNF) invece possono indurre fortemente la sintesi di ICAM-1 e VCAM-2 nelle cellule endoteliali. La sintesi richiede più tempo e queste molecole sono utilizzate nel legame forte.

 

La risposta A non è corretta.

L’ Interferon-Ɣ (INF-Ɣ) viene prodotta dai linfociti Th1, CD8+ e NK. . La produzione di INF-Ɣ è una caratteristica dell’immunità innata e adattativa. L’effetto complessivo delle diverse attività biologiche di IFNγ è quello di promuovere le reazioni infiammatorie in cui l’attività dei macrofagi predominante, inibendo al contempo quelle in cui prevale l’attività degli eosinofili. Stimola le funzioni microbicide dei macrofagi attivando la trascrizione di geni che codificano per  l’ossidasi fagocitica e la sintetasi inducibile dell’NO inducendo quindi la sintesi di NO e di ROS. Promuove la differenziazione verso i linfociti Th1 e inibisce quella verso i linfociti Th2 stimolando la sintesi del fattore di trascrizione T-bet e attivando i fagociti mononucleati a produrre IL12. Agendo sui linfociti B promuove lo scambio isotipico verso le IgG inibendo al contempo quello verso isotipi IL4-dipendenti. Stimola l’espressione sulle APC di MHC di classe I e II, di molecole costimolatorie e di proteine coinvolte nel processa mento dell’antigene quali TAP, HLA-DM, LMP2 e 7. È stato associato alle patologie croniche su base autoimmune.

 

La risposta B non è corretta.

IL-5 viene prodotta dai linfociti Th2 e dai mastociti attivati. Stimola la proliferazione e la differenziazione degli eosinofili, la proliferazione e differenziamento dei linfociti B e promuove lo switch verso la produzione di IgA. IL-5 non svolge un ruolo diretto nell’infiammazione acuta.

 

La risposta D non è corretta.

IL-4 viene prodotta dai linfociti Th2, mastociti, basofili. Rappresenta il principale stimolo per la produzione di IgE e per il differenziamento dei linfociti CD4+ naive in linfociti Th2, stimola la proliferazione dei linfociti B e promuove lo switch da IgE a gG. È l’unica citochina che attiva STAT6 ed insieme ad IL13, contribuisce ad una forma di attivazione dei macrofagi alternativa a quella classicamente indotta da IFNγ. Queste citochine inducono la produzione di arginasi (che porta alla formazione di collagene) e di recettori per il mannosio. Non c’è evidenza di un ruolo diretto di IL-4 nell’infiammazione acuta.

 

La risposta E non è corretta.

IL-10 è una citochina con effetti multipli e pleiotropici nell’immunoregolazione e nell’infiammazione. La producono sia cellule linfoidi che non (es. cheratinociti). Agisce da inibitore dei macrofagi attivati e delle cellule dendritiche ed è quindi implicata nel controllo delle risposte innate e dell’immunità cellulo-mediata ( è infatti responsabile della down regolazione dell’espressione delle citochine Th1); inibisce inoltre la produzione di IL12 da parte dei macrofagi attivati e delle cellule dendritiche ed inibisce l’espressione di molecole costimolatorie e di MHC II da parte dei macrofagi e delle cellule dendritiche. Poiché IL10 inibisce efficacemente l’attività delle cellule che la producono, essa può essere considerata un classico esempio di regolazione a feedback negativo. Infine promuove la sopravvivenza e la proliferazione dei linfociti B e ne stimola la produzione di anticorpi.


2 di 10 Domande

Il Sig. Mariani, un uomo di 78 anni si reca presso il PS del Policlinico Torvergata di Roma, a causa di un episodio di dispnea acuta. Anamnesi patologica prossima: lamenta comparsa di episodi di tosse produttiva, gonfiore degli arti inferiori e dei piedi, astenia, che perdurano da 3 settimane. Inoltre, da due mesi a questa parte, si sono presentate crisi di dispnea da sforzo ingravescente. Anamnesi patologica remota: una decina di anni prima è stato sottoposto ad un intervento di chirurgia sostitutiva per impianto di protesi valvolare di suino, a causa di un rigurgito della valvola mitrale di grado severo. Il paziente è affetto da coronaropatia, diabete mellito di tipo 2 ed ipertensione. Anamnesi fisiologica: ha fumato per 55 anni un pacchetto di sigarette al giorno e abitualmente beve una birra al giorno. Anamnesi farmacologica Attualmente prende diversi farmaci tra cui cardioaspirina, simvastatina, ramipril, metoprololo, metformina e idroclorotiazide. Esame obiettivo: si presenta dall’aspetto pallido. L’uomo è alto 181 cm e pesa 128 kg, con una BMI di circa 41 kg/m2. Ha una temperatura corporea di 37.3°C , frequenza respiratoria di 23 atti/min, frequenza cardiaca di 97 bpm, e pressione arteriosa di 148/95 mm Hg. All’auscultazione del torace si riscontra la presenza di rantoli alle basi polmonari bilateralmente. L’esame obiettivo del cuore rivela la presenza di un battito apicale dislocato lateralmente e la presenza, a livello dell’apice, di un soffio diastolico 3/6 di intensità decrescente. Inoltre si osserva la presenza di edemi improntabili bilateralmente a livello dei piedi e delle caviglie. Il resto dell’esame obiettivo non mostra altre anomalie. Quale tra le seguenti è la causa più probabile dei sintomi di questo paziente?

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La risposta D è corretta.

Il paziente circa 10 anni fa si era sottoposto ad un intervento di chirurgia sostitutiva protesica con impianto di protesi valvolare suina, a causa di un severo rigurgito valvolare mitralico.

Il trattamento di una valvulopatia, a meno che non sia di grado medio-elevato e clinicamente significativa, di norma richiede solo un controllo periodico, mentre l’intervento chirurgico è indicato in presenza di un’alterazione di grado moderato o grave responsabile di una sintomatologia e/o disfunzione cardiaca. L’intervento può essere di differente tipo, andando dalla valvuloplastica alla riparazione fino alla sostituzione valvolare. In caso di sostituzione valvolare vengono utilizzate due tipi di protesi:

– meccanica che vengono utilizzate per lo più in pazienti con una età inferiore ai 65 anni e nei pazienti anziani con una lunga aspettativa di vita (in tali pazienti si renderà necessaria una terapia anticoagulante con warfarin per tutta la vita per prevenire episodi di tromboembolismo),

– biologica (suina o bovina), sono maggiormente soggette a deterioramento andando incontro a processi degenerativi sclero-fibrotici che solitamente si manifesta nel giro temporale di 10-15 anni.

Una possibile complicanza rappresentata dall’impianto di una protesi valvolare biologica, è l’ostruzione/stenosi della stessa, come osservato in questo paziente, e anche il rigurgito valvolare: entrambi possono manifestarsi con segni di scompenso cardiaco.

 

La risposta A non è corretta.

L’endocardite infettiva può instaurarsi a causa di un’anormale predisposizione dell’endocardio come in caso di patologie cardiache congenite, malattia valvolare reumatica, valvole aortiche o bicuspidi calcifiche, prolasso valvolare mitralico, cardiomiopatia ipertrofica e precedente endocardite. Altri fattori predisponenti sono le protesi valvolari cardiache, la tossicodipendenza, il diabete, l’uso di anticoagulanti e steroidi, l’età avanzata.  I microrganismi causali sono streptococchi e stafilococchi nell’80-90% dei casi (Streprococcus viridans, Streptococcus bovis, Staphylococcus aureus), nei restanti i responsabili sono Enterococchi o i microrganismi HACEK (Haemophilus sp, Actinobacillus actinomycetemcomitans, Cardiobacterium hominis, Eikenella corrodens, e Kingella kingae).

Dal punto di vista clinico, possiamo riscontrare: febbre, la comparsa di un nuovo soffio cardiaco o il modificarsi del soffio di uno preesistente modificato.

I pazienti con valvola protesica hanno un elevato rischio di sviluppare endocardite infettiva, soprattutto la forma subacuta, che si manifesta con la comparsa di febbre, rumori cardiaci e può portare all’insorgenza di scompenso cardiaco congestizio nell’arco di giorni o settimane. Eseguendo l’esame ecocardiografico, possiamo riscontrare anche la presenza di una vegetazione.

Altre caratteristiche di questa patologia sono: petecchie congiuntivali, macchie di Roth, lesioni di Janeway, nodi di Osler, emorragia subungueale “a scheggia”.

La diagnosi si basa sui criteri di DUKE: essi si suddividono in criteri minori e maggiori e che categorizzano i pazienti con endocardite infettiva in 3 diverse categorie diagnostiche (diagnosi rigettata, possibile e certa).

Quando non sono disponibili i risultati dell’emocoltura, come in questo caso (e non vi è rischio per MRSA) è necessario intervenire con un approccio farmacologico empirico con un β-lattamico in associazione con un amminoglicoside.

Sebbene questo paziente presenti un soffio cardiaco e segni di scompenso cardiaco, non ha nè febbre nè sintomi che corrispondano ai criteri di Duke, il che rende improbabile una diagnosi di endocardite infettiva.

 

La risposta B non è corretta.

La BPCO è una malattia polmonare non completamente reversibile, caratterizzata da ostruzione bronchiale persistente spesso associata a significativi effetti extrapolmonari. L’ostruzione bronchiale ha in genere un andamento progressivo ed è accompagnata da un’abnorme risposta infiammatoria broncopolmonare a inquinanti ambientali in particolare il fumo. L’ostruzione bronchiale viene definita in base al rapporto VEMS/CVF inferiore a 0,7.  Questo sta a significare che, di tutta l’aria mobilizzabile in una manovra espiratoria completa, meno del 70% viene mobilizzata nel primo secondo.

La BPCO può andare incontro a riacutizzazione; questa riacutizzazione è caratterizzata da un peggioramento acuto dei sintomi ed è comunemente determinata da un’infezione delle vie respiratorie superiori.

La BPCO si manifesta con dispnea e tosse produttiva cronica (≥ 3 mesi in 2 anni consecutivi) e può anche causare tachipnea, cianosi, ed ipertensione polmonare nelle fasi più avanzate. Tipico di questi pazienti è anche la presenza di respiro sibilante e di una fase espiratoria prolungata. L’esame obiettivo è positivo per dispnea, tachipnea, distress respiratorio ed uso dei muscoli respiratori accessori per la respirazione.

Nonostante questo paziente abbia la tosse e sia stato un fumatore per molto tempo, gli episodi di tosse durano solo da tre settimane e all’auscultazione polmonare non vi sono segni di ostruzione. Per questo motivo una diagnosi di BPCO è inesatta.

 

La risposta C non è corretta.

La polmonite è un’infiammazione acuta dei polmoni. Di solito, la diagnosi iniziale si basa sulla RX torace e su reperti clinici.

L’infezione può essere batterica, virale, fungina o parassitaria.

Si può sviluppare in un paziente immunocompetente o in un paziente immunodepresso.

Ma dato che gli agenti patogeni e le prognosi tendono a essere simili in pazienti con condizioni e fattori di rischio simili, le polmoniti possono essere classificate come:

– Non nosocomiali (gli agenti eziologici più comunemente responsabili delle polmoniti acquisite in comunità sono lo Streptococcus Pneumoniae e il Mycoplasma Pneumoniae),

– Nosocomiali: la polmonite è l’infezione nosocomiale più letale, e complessivamente è la più frequente causa di morte nei paesi in via di sviluppo.

Queste categorizzazioni permettono di selezionare empiricamente il trattamento.

Dal punto di vista clinico, ritroviamo: febbre, dispnea e tosse secca, perdita di peso, astenia, ipossia. Un quadro di polmonite tipica si presenta con sintomatologia ad esordio improvviso che comprende febbre, malessere generale, tosse produttiva, e all’auscultazione si riscontra la presenza di crepitii e rumori respiratori bronchiali. Una polmonite atipica, invece, si manifesta con una sintomatologia ad esordio graduale che comprende, tosse non produttiva, dispnea, manifestazioni extrapolmonari, e spesso all’esame obiettivo non si riscontrano elementi significativi.

È opportuno eseguire degli esami colturali del sangue e dell’escreato, per isolare il germe responsabile dell’infezione ed individuare una terapia antibiotica mirata.

Sebbene questo paziente presenti tosse produttiva, non ha febbre e all’auscultazione polmonare si riscontrano rantoli alle basi bilateralmente, entrambi elementi maggiormente riconducibili ad uno scompenso cardiaco congestizio piuttosto che ad una polmonite.

 

La risposta E non è corretta.

Per embolia polmonare si intende una condizione patologica caratterizzata da un’occlusione di una o più arterie polmonari da parte di trombi che si dipartono da altri siti corporei, solitamente dai grandi tronchi venosi delle gambe o del distretto pelvico. La presentazione di questa malattia è di solito più acuta.

Dal punto di vista clinico, la sintomatologia dell’embolia polmonare è aspecifica e variabile; possiamo riscontrare: dolore toracico pleuritico, tosse sincope, dispnea o arresto cardiorespiratorio (nei casi più gravi).

Anche i segni non sono specifici comprendono: tachipnea, tachicardia, ipotensione (nei casi più gravi).

I fattori di rischio includono: immobilità (pazienti allettati), anomalie della coagulazione a carattere ereditario, gravidanza e recenti interventi di chirurgia.

Questo paziente presenta tosse e dispnea, che possono mimare un quadro di embolia polmonare, tuttavia, l’anamnesi del paziente non menziona una recente immobilizzazione. Inoltre presenta una stenosi mitralica ed edemi improntabili bilateralmente a livello dei piedi e delle caviglie, elementi che rendono lo scompenso cardiaco congestizio più probabile rispetto ad un’embolia polmonare.


3 di 10 Domande

Matteo, nato alla 25esima settimana di gestazionale, è ricoverato da tre mesi presso il reperto di terapia intensiva neonatale. È in ventilazione meccanica a pressione positiva continua (CPAP) a 7 cm H2O e con una concentrazione di ossigeno inspirata (FiO2) di 0,40. Anamnesi personale fisiologica: nato alla 25esima settimana di gestazionale. Esame obiettivo: La sua temperatura corporea è di 36.9 C, la frequenza cardiaca è di 118 bpm/minuto, la frequenza respiratoria è di 28 atti/min e la pressione arteriosa è di 62/38 mmHg. In questi mesi ha presentato solo un lievissimo aumento ponderale in virtù dell’alimentazione tramite sondino naso-gastrico. Il Dott. Celso, medico del reparto di terapia intensiva neonatale, visita il piccolo Matteo, riscontrando alla presenza di lievi retrazioni intercostali, fini crepitii diffusi sui vari campi polmonari, un aumento del diametro toracico anteriore-posteriore e la presenza di occasionali rantoli sparsi nei vari ambiti polmonari. Esami strumentali-laboratoristici: emogasanalisi e prelievo di sangue venoso, i cui risultati sono riportati come segue:
pH 7.50
PCO2 54 mmHg
PO2 57 mmHg
Na 131 meq / L
Cloruro 91 meq / L
Potassio 3.0 meq / L
HCO 3 34 meq / L
Calcio ionizzato sierico 3,4 mg / dL
Cl Urinario 11 meq / L
Quale fra le seguenti opzioni riportate potrebbe spiegare l’esito dei risultati riportati?


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La risposta corretta è la B.

Matteo presenta una condizione definita displasia broncopolmonare (BPD),  una complicanza a carico dell’apparato respiratorio che inizia come ARDS e poi tende a cronicizzare. Non sono ancora note le cause che determinano una cronicizzazione della ARDS anche se le più importanti sembrano ricondursi a: nascita prematura, infezioni pre e post natali, pervietà del dotto di Botallo, massicce terapie con steroidi durante le prime fasi di vita, alte concentrazioni dell’O2 inspirato per via artificiale ed una ventilazione meccanica aggressiva. Infatti tale condizione, a causa di un’immaturità nello sviluppo delle vie aeree e del circolo vascolare, tende a verificarsi più frequentemente nei bambini nati pretermine prima della 28esima settimana di gestazione, che fanno terapia massiva con steroidi e che presentano un peso alla nascita inferiore ad 1 kg: i polmoni di questi piccoli pazienti sono maggiormente esposti ad insulti flogistici infiammatori che determinano alterazioni nello sviluppo della normale architettura polmonare che risulta interrotta, ove si formano sacche alveolari, più o meno grandi, con associato ispessimento interstiziale ed alterazione della fisiologica trama vasculo-polmonare; pertanto la resistenza polmonare può aumentare e si può determinare un quadro di ipertensione polmonare. Tale condizione necessita, per almeno le prime 4 settimane di vita, di ossigenoterapia, mentre nel caso presentato, il piccolo paziente è ancora in ossigeno terapia tramite CPAP, dato che presenta una forma particolarmente severa di tale patologia. La malattia ha un’eziologia multifattoriale, con alterazione delle meccanica respiratoria, flogosi tissutale e danno ossidativo a carico del  parenchima polmonare mediato dai  radicali liberi dell’ossigeno, che conduce ad una condizione terminale caratterizzata da un punto di vista isto-patologico da  bronchiolite fibro-proliferativa obliterante, iperplasia diffusa della mucosa bronchiolare e bronchiale, metaplasia ed edema interstiziale. Tali pazienti hanno un tasso di 3 volte circa rispetto alla media di difetto della crescita e di alterazioni nel normale sviluppo neurologico: per molto tempo (anni) questi pazienti presentano un rischio aumentato di infezioni delle basse vie respiratorie (polmonite o bronchiolite virali) e possono sviluppare uno scompenso. Una elevata mortalità si riscontra negli stadi terminali in cui dal punto di vista clinico si può apprezzare spiccata cardiomegalia da cuore polmonare, presenza di zone focali di enfisema e malattia fibrocistica  diffusa e segmentale. I pazienti affetti da tale condizione presentano un quadro clinico tipico e netto, che si caratterizza per: tachipnea, dispnea, aumento del  diametro toracico in senso antero-posteriore, retrazioni  intercostali, presenza di crepitii diffusi nei vari ambiti polmonari per sovraccarico idrico e   scarsa crescita generale. Tale quadro patologico è sospettato quando un neonato, nato con le caratteristiche precedentemente descritte (in particolare bimbo nato prematuramente con peso alla nascita inferiore ad 1 kg e che ha fatto uso per almeno 4 settimane di ventilazione meccanica con O2> 21%: criteri supplementari diagnostici sono stati sviluppati dal NICHD), nonostante sia sottoposto a ventilazione meccanica non riesce ad essere svezzato dalla ossigenoterapia con O2: in breve tempo si sviluppa un quadro di ipossia e ipercapnia ingravescenti e una maggiore richiesta di O2. Se viene effettuata una radiografia del torace il reperto più probabile sarà quello di una diffusa ipodiafania nei vari ambiti polmonari per accumulo di essudato, con aspetto polmonare multicistico o spugnoso, con alternanza di zone di enfisema, fibrosi polmonari e bande atelettasiche. Dal punto di vista terapeutico tali piccoli pazienti, che necessitano di somministrazione di ossigeno in maniera continua (come nel caso presentato), hanno un’incidenza più alta di   ostruzione delle vie aeree inferiori , ma presentano una buona risposta alla somministrazione di   broncodilatatori. Gli obiettivi della terapia sono   finalizzati a mantenere la saturazione di ossigeno superiore al 90% con lo scopo di ridurre il lavoro respiratorio, ridurre il rischio di insorgenza di cardiomegalia da cuore polmonare, aumentare il tasso di crescita e consentire un adeguato sviluppo neurologico. La restrizione fluida e la terapia cronica con furosemide (diuretico  dell’ansa), diminuisce l’edema polmonare e pertanto permette di ridurre la concentrazione di ossigeno da somministrare; tuttavia, protrarre il trattamento per molte settimane non ha mostrato dati confortanti per un miglior esito della condizione, ma invece si è visto che si associa ad un aumentato rischio di alterazioni idro-elettrolitiche: tanto più è lunga e protratta la terapia con furosemide, tanto minore sarà l’effetto diuretico. Nelle fasi iniziali, la furosemide causa una deplezione di volume con conseguente aumento della perdita urinaria di cloruro (più di 20 meq / L) che porta ad un aumento della secrezione di angiotensina II, aldosterone e della stimolazione renale adrenergica, con conseguente   aumento del rilascio di Na nel nefrone distale , che  a sua volta determina un aumentata secrezione di acido instaurando un quadro di alcalosi metabolica. In virtù della successiva perdita e consequenziale diminuzione di HCO 3, il quadro di alcalosi viene ad esser stabilizzato; ma il diuretico causa anche la perdita di liquidi senza HCO 3 e pertanto il restante HCO 3 si viene a trovare in un volume di liquido corporeo più piccolo che fa si che la concentrazione di HCO 3 risulti aumentata, il che contribuisce anche a generare e sostenere il quadro di alcalosi metabolica: tale meccanismo è noto come alcalosi da contrazione. In virtù del basso volume intravascolare efficace, vengono stimolati i  meccanismi di compensazione e viene sostenuta la condizione di alcalosi. Dopo un po’ di tempo dall’uso cronico della furosemide, il cloruro nelle urine tende a diminuire a meno di 15 meq/L (come nel caso presentato) a causa del   ritenzione del cloro renale come risposta alla deplezione del volume: pertanto, è un   alcalosi che risponde alla somministrazione di cloruro e viene corretta con   adeguata idratazione con cloruro di sodio.   L’alcalemia enfatizza la perdita renale di K, spostandolo nello spazio intravascolare   e pertanto i livelli sierici di K saranno bassi .   Il bicarbonato, che presenta una carica negativa, deve essere escreto assieme ad un catione positivo (K o Na), quindi ci sarà Na nelle urine e pertanto si riscontrerà un certo grado di iponatriemia nonostante la deplezione di volume.   In alcuni casi si può verificare un aumento compensativo della concentrazione di PaCO 2 con conseguente ipoventilazione, alterazioni che si aggiungono alla condizione di ipossiemia di base . A causa della gravità della malattia polmonare, il quadro di alcalosi che si determina non è mai completamente compensato, ma bensì è un alcalosi metabolica primaria solo che prevede un parziale meccanismo di compensazione respiratoria. Infine, la furosemide ha effetti calciurico, pertanto il calcio sierico ionizzato e il calcio totale saranno diminuiti, mentre il calcio urinario sarà aumentato e tali alterazioni possono determinare la formazione di calcolosi renali fino ad arrivare ad un quadro di nefrocalcinosi .

 

La risposta A non è corretta.

Un tumore che secerne renina è una rara neoplasia che origina dalle cellule muscolari parietali delle arteriole afferenti glomerulari a stretto contatto con la macula densa: tale neoplasia  determinerebbe un quadro di iper-reninemia ed iper-aldosteronismo: il Na si verrebbe ad essere trattenuto a livello renale di sodio con l’istaurarsi di un consequenziale stato ipertensivo, di alcalosi metabolica ed ipopotassiemico, mentre il cloruro urinario, in virtù di un sovraccarico volumetrico, tenderebbe ad aumentare. Tutte queste condizioni non si riscontrano in tale caso presentato.

 

La risposta C non è corretta.

La sindrome di Bartter è una tubulopatia a trasmissione autosomica recessiva caratterizzata da alterazioni biochimico-elettrolitiche-ormonali caratteristiche, quali: alcalosi ipokaliemica, iperreninemia plasmatica ed iperaldosteronismo, ipercalciuria, ipotensione arteriosa per difetto nel riassorbimento di Na e Cl a livello dell’ansa di Henle che determina deplezione volumetrica e resistenza vascolare all’angiotensina II. Tali pazienti inoltre presentano elevate concentrazioni di cloruro a livello urinario. Il piccolo paziente presentato nel caso ha un basso contenuto di acido a livello urinario.

 

La risposta D non è corretta.

Lo spironolattone è un antagonista del recettore dell’aldosterone che stimola i reni ad eliminare acqua e sodio in eccesso attraverso le urine, risparmiando allo stesso tempo la perdita di potassi. Tale   inibitore viene utilizzato in associazione con i diuretici tiazidici in alcuni casi di displasia broncopolmonare: in tali pazienti il potassio è normale o addirittura aumentato e presenteranno un quadro iniziale di acidosi ipercloremica.

 

La risposta E non è corretta.

La carenza di 11- β idrossilasi  rientra a far parte della gamma dei difetti biochimici nelle condizioni di iperplasia surrenalica congenita, una condizione clinica caratterizzata da carenza di glucocorticoidi, incremento degli androgeni (con conseguente virilizzazione femminile) ed aumento della pressione arteriosa. Tale alterazione   è determinata da una mutazione presente nel gene CYP11B1, sito sul cromosoma 8q21: si determina una carenza della secrezione di cortisolo, si ha una ipersecrezione di androgeni dai precursori (11-desossicortisolo e deossicorticosterone) e si ha ipertensione da accumulo di   deossicorticosterone, mentre non venendo interessato il gene codificante per l’aldosterone sintasi non si ha l’ipoaldosteronismo   e quindi non si verifica iponatremia.

– La displasia broncopolmonare è una complicanza che tende a verificarsi più frequentemente nei bambini nati pretermine prima della 28esima settimana di gestazione, che fanno terapia massiva con steroidi e che presentano un peso alla nascita inferiore ad 1 kg. Tale condizione necessita, per almeno le prime 4 settimane di vita, di ossigenoterapia,

– La base della malattia è multifattoriale, con alterazione delle meccanica respiratoria e danno ossidativo a carico del parenchima polmonare mediato dai   radicali liberi dell’ossigeno   e dai   mediatori dell’infiammazione, v’è interruzione della normale anatomia degli alveoli e delle vie aeree che contribuiscono a diffondere la malattia fibrocistica polmonare.

– L’obiettivo della terapia è garantire un’adeguata ossigenazione: la terapia più importante consiste nell’uso di broncodilatatori e dei diuretici dell’ansa (furosemide) e tiazidici.-Le conseguenze dell’uso cronico della furosemide sono: iponatremia, ipocloremia, ipokaliemia, alcalosi metabolica, ipocalcemia e ipercalciuria.


4 di 10 Domande

Un paziente di 37 anni si presenta in Pronto Soccorso per comparsa di valori elevati di pressione arteriosa. L'addome si presenta globoso per adipe ed è raffigurato nell'immagine seguente. Gli arti sono estremamente sottili. Quale ipotesi diagnostica deve essere considerata in questo caso clinico?

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La sindrome di Cushing è una sindrome caratterizzata da una costellazione di anomalie cliniche provocate da livelli ematici cronicamente elevati di cortisolo o di corticosteroidi ad esso correlati.

Le manifestazioni cliniche interessano molteplici organi, sistemi e processi biochimici: alti livelli di cortisolo causano diabete, osteoporosi, ipertensione, aumentato rischio cardiovascolare, depressione, infertilità, e una ridotta qualità di vita.

Dati recenti riportano che nei Cushing non trattati la mortalità aumenta di 5 volte, la normalizzazione dei livelli di cortisolo riportano la mortalità a valori normali.

Il cortisolo è un ormone devastante se presente in eccesso: protido-catabolico e anti-anabolico. Nel Cushing è in un range deleterio per il resto dell’organismo, e in quanto antagonista dell’insulina determina una serie di sintomi per cui porta l’organismo in una situazione di estrema fragilità: i muscoli diventano fragili, il sistema vascolare si rompe facilmente, azione iperglicemizzante. Il paziente guadagna peso se mangia: l’aumento di peso è relativo all’introito di cibo.

Quando questo eccesso di cortisolo si associa ad adenoma ipofisario, noi parliamo di Malattia di Cushing.

La sindrome di Cushing la distinguiamo il ESOGENA ed ENDOGENA.

– ESOGENA è dovuta all’assunzione di corticosteroidi sintetici, che è la causa più frequente e meno conosciuta.

– ENDOGENA l’ipercostisolismo è legato all’aumentata produzione di cortisolo.

L’endogena la distinguiamo in:

1)  ACTH-dipendente, quindi l’iperproduzione di cortisolo è legata all’eccesso di ACTH.

2) ACTH-indipendente.

L’iperproduzione di cortisolo è legata all’eccesso di ACTH che stimola il surrene. La sindrome di Cushing endogena ACTH-dipendente (80% dei casi) in realtà comprende tre sindromi diverse che possiamo chiamare:

  1. surrenalica quando la causa è nel surrene, quindi sindrome di Cushing surrenalica legata alla presenza di un adenoma o di un carcinoma oppure di un’iperplasia surrenalica;
  2. ipofisaria quando alla base della sindrome di Cushing c’è l’eccesso di ACTH, eccessiva produzione autonoma di ACTH da parte dell’ipofisi;
  3. ectopica quando l’aumento degli ormoni corticosteroidi è legata alla secrezione a livello di una neoplasia non presente nell’asse, quindi ectopica, che può produrre sia CRH che ACTH.

Dunque distinguiamo una sindrome di Cushing endogena surrenalica, una sindrome di Cushing ipofisaria e una sindrome di Cushing ectopica.

Dal punto di vista clinico questa sindrome si caratterizza per: astenia, dolore lombare legata all’osteoporosi, diminuzione o aumento dell’appetito, diminuzione della concentrazione, alterazione della memoria, insonnia, irritabilità, anomalie del ciclo, diminuzione della libido, facies a luna piena, gobba di bufalo, obesità centrale, deposito sovraclaveare del grasso (a volte il collo sparisce completamente), la cute sottile ed estremamente friabile, porpora, comparsa delle cosiddette strie rubre a livello addominale,  l’acne, l’irsutismo con l’alopecia, arretramento della linea di impianto dei capelli, ipertensione arteriosa, debolezza dei muscoli prossimali, l’edema periferico e la difficile guarigione delle ferite (numerosi di questi segni sono mostrati anche nell’immagine presenta nel caso, risposta C corretta).

Quindi la sindrome di Cushing esogena deriva da una somministrazione dall’esterno di cortisolo e di ACTH. L’endogena può essere ACTH-dipendente e ACTH-indipendente. L’ACTH-indipendente a sua volta si suddivide in ipofisaria ed ectopica. L’ACTH-indipendente comprende l’iperplasia surrenalica, l’ adenoma surrenale e il carcinoma surrenale. Per quanto riguarda l’iperplasia nodulare, quindi la forma ACTH-dipendente, la distinguiamo in macronodulare e micronodulare. Quindi abbiamo diverse forme.

Quindi sulla sindrome di Cushing endogena abbiamo detto l’ipofisaria, l’adenoma che può essere associato ad iperplasia surrenalica o anche l’iperplasia ipofisaria quando abbiamo, per esempio, il CRH ipotalamico, oppure quando alla base della sindrome c’è la produzione ectopica di CRH. Noi avremo che questo CRH dà un’iperplasia, un’iperfunzione ipofisaria che non dipende da un adenoma.

La produzione ectopica può essere di CRH o di ACTH.

La sindrome di Cushing surrenalica può essere:

  1. unilaterale e abbiamo i tumori surrenali, abbiamo detto l’adenoma singolo, l’adenoma multiplo o i carcinomi;
  2. bilaterale e abbiamo la displasia nodulare.

Poi abbiamo tutta una serie di situazioni che concretizzano quello che viene definito lo pseudo-Cushing, cioè i segni e i sintomi di un eccesso di cortisolo, ma non un eccesso di cortisolo che si verifica, fondamentalmente, nell’obesità, nella depressione e nell’alcolismo, nell’assunzione di alcol.

La sindrome di Cushing esogena può essere iatrogena e factizia: iatrogena per somministrazione terapeutica e factizia per assunzione spontanea di corticosteroidi che possono essere somministrati per via orale, inalatoria e cutanea; factizia con l’assunzione di ACTH che, per esempio, è largamente utilizzato dagli allergologi, da quelli che fanno terapia steroidea per lungo periodo. Anziché dare il cortisone, stimolano il surrene a produrre una maggiore quantità di cortisolo con l’ACTH. Un altro farmaco che può dare la sindrome di Cushing esogena è il medrossiprogesterone acetato che è un progestinico, utilizzato principalmente come anabolizzante nelle terapie di pazienti affetti da carcinoma della mammella oppure in altre patologie neoplastiche a scopo anabolizzante.

A questo consegue che c’è una soppressione comune dell’asse ipotalamo-ipofisario.

I sintomi collaterali di questo eccessivo uso di cortisolo caratterizzano una sindrome perfettamente analoga a quella data da iperfunzione del surrene.

Poi abbiamo la sindrome di Cushing endogena ACTH-indipendente surrenalica, con adenomi e carcinomi nel 20% dei casi, la displasia micronodulare e l’iperplasia macronodulare.

Nell’ipercortisolismo endogeno ACTH-dipendente vedete che l’ACTH stimola il surrene a produrre più glucocorticoidi, viene a mancare il meccanismo di feedback perché nonostante i glucocorticoidi cerchino di ridurre l’input dell’ACTH e del CRH, ciò non avviene.

Nel caso dell’ipercortisolismo endogeno ACTH-indipendente abbiamo iperproduzione di glucocorticoidi da parte del surrene che esercitano rapidamente un feedback a livello ipofisario e avremo un ACTH pari a 0.

Nel caso di sindrome primitiva, per il feedback viene messo a riposo l’asse ipotalamo-ipofisario. Nel caso di alterazione a livello superiore l’ACTH rimarrà alto nonostante i valori elevati ci cortisolo.

Qui abbiamo tre situazioni:

  1. alterazione a livello ipotalamico, l’ACTH ipofisario è aumentato ed è aumentato anche il cortisolo;
  2. alterazione a livello ipofisario, l’ipotalamo sano subisce il feedback da parte dell’ACTH ipofisario, dunque il CRH sarà diminuito. L’ACTH è aumentato e il cortisolo anche;
  3. alterazione surrenale, sia l’ACTH che il CRH sono fortemente diminuiti mentre è aumentato il cortisolo.

La sindrome di Cushing ACTH-dipendente ipofisaria è la più frequente dopo la sindrome di Cushing esogena. L’incidenza della sindrome di Cushing ipofisario è 2-6 casi per milione di individui l’anno, predilige il sesso femminile di età media tra i 20 e i 40 anni. E’ causata generalmente da adenomi ipofisari ACTH-secernenti.

Per quello che concerne l’ectopica (20% dei casi), non è prevalente nel sesso femminile come l’ipofisaria, ma prevale nel sesso maschile (quella legata a neoplasie). L’età è un pochino più avanzata: tra i 50 e i 70 anni. La causa è una neoplasia secernente ACTH o CRH, quindi è una sindrome paraneoplastica, e i tumori responsabili sono i microcitomi polmonari che sono i più frequenti, i carcinomi delle cellule pancreatiche, poi i carcinoidi.

La sindrome ectopica è più frequente negli uomini ed è data da questi tumori, generalmente tumori a piccole cellule del polmone. In questo caso la vera incidenza è misconosciuta perché questi tumori portano così rapidamente a risoluzione negativa della situazione per cui è difficile fare la diagnosi. Anche per la sindrome dell’ACTH ectopico la frequenza reale è sconosciuta. Tranne quando si tratti di adenomi o carcinomi bronchiali con un andamento più benigno: in questi casi la sindrome del’ACTH ectopico ha la sua piena estrinsecazione.

Le ipotesi per cui questi ormoni sono prodotti a livello delle neoplasie sono tante, ma fondamentalmente ciò avviene perché a livello delle neoplasie ci sono dei geni non repressi.

Nell’adenoma, nell’iperattività ipofisaria abbiamo un aumento dell’ACTH, iperplasia del surrene e malattia di Cushing. Quando abbiamo eccesso di ormoni surrenali ne deriva il blocco dell’asse. La malattia ectopica accade quando c’è un tumore broncogeno oppure un tumore del timo, ma a volte anche nello stesso surrene (per esempio un tumore nel surrene destro a volte ha dato il Cushing del surrene sinistro). In queste situazioni abbiamo che c’è l’aumento dell’ACTH che, rispetto a quello della sindrome di Cushing ipofisaria, è molto più alto però, fondamentalmente, il più delle volte non è l’ACTH puro ma la beta-lipotropina oppure il CRH che in aggiunta dà una sindrome ipofisaria. E allora diventa difficile fare una diagnosi differenziale tra le varie sindromi perché abbiamo l’ectopica aggravata da varie complicazioni a livello centrale.

Poi abbiamo le forme surrenaliche le quali sono ACTH-indipendenti e non sono molto frequenti. La sindrome di Cushing surrenale è circa il 20% delle sindromi di Cushing. Abbiamo tumori, alterazioni unilaterali e bilaterali.

Nel caso di sindrome di Cushing da alterazioni unilaterali abbiamo:

  1. adenomi nel 60% dei casi,
  2. carcinomi cortisolo-secernenti nel 40% dei casi.

Poi abbiamo la sindrome di Cushing da alterazioni bilaterali:

  1. la displasia micronodulare che distinguiamo in pigmentata nell’1% dei casi,
  2. il complesso di Carney sempre nell’1% dei casi,
  3. la sindrome McCune-Albright (che abbiamo visto a proposito della pubertà precoce),
  4. l’iperplasia macronodulare massiva,
  5. l’iperplasia surrenalica da recettori aberranti.

Dal punto di vista diagnostico è importante innanzitutto definire se esiste un’ipercortisolinemia e valutare i livelli di ACTH e poi andare a vedere quale sia la causa che ha determinato tale sindrome ed eventualmente con esami mirati definirne la localizzazione.

Dal punto di vista terapeutico l’obiettivo è correggere l’ipercortisolismo, ripristinare la funzionalità dell’asse ipofisi-surrene, mantenere un’adeguata funzionalità ipofisaria nelle forme ipofisarie e ottenere una remissione delle manifestazioni legate all’eccesso di cortisolo.

L’unico trattamento efficace è la rimozione della causa primitiva dell’eccesso di cortisolo, sia essa una lesione surrenalica, ipofisaria o ectopica.


5 di 10 Domande

Qual e' l’ esame di primo livello per una corretta definizione di un nodulo tiroideo apprezzato clinicamente in un paziente con TSH normale o elevato?














La risposta corretta è la E.
Sia nel bambino che nell’adulto, l’ecografia è la metodica più utilizzata per lo studio delle lesioni superficiali e palpabili, come avviene nei reperti riscontrati nella regione cervicale (noduli tiroidei, linfonodi laterocervicali, aumento dimensionale delle ghiandole salivari, ecc.). Con l’ecografia con sonda lineare, infatti, può essere correttamente visualizzata la forma, la dimensione, i margini, i rapporti e l’eco-struttura della lesione, e può esserne studiata la vascolarizzazione mediante tecnica color-Doppler. Nella corretta definizione di un nodulo tiroideo apprezzabile clinicamente in un paziente con TSH normale o elevato, l’esame di primo livello è l’ecografia tiroidea, seguita da esami di secondo livello come la TC e la RM del collo o da un accertamento bioptico diretto con agoaspirato (risposte A, B, C e D errate).

6 di 10 Domande

Un paziente di 37 anni si presenta in Pronto Soccorso per comparsa di valori elevati di pressione arteriosa. L'addome si presenta globoso per adipe ed è raffigurato nell'immagine seguente. Gli arti sono estremamente sottili. Per confermare l'ipotesi diagnostica tutti gli esami seguenti sono congrui a ECCEZIONE di uno. Quale?

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La risposta corretta è la A.

La sindrome di Cushing è una sindrome caratterizzata da una costellazione di anomalie cliniche provocate da livelli ematici cronicamente elevati di cortisolo o di corticosteroidi ad esso correlati.

Le manifestazioni cliniche interessano molteplici organi, sistemi e processi biochimici: alti livelli di cortisolo causano diabete, osteoporosi, ipertensione, aumentato rischio cardiovascolare, depressione, infertilità, e una ridotta qualità di vita.

Dati recenti riportano che nei Cushing non trattati la mortalità aumenta di 5 volte, la normalizzazione dei livelli di cortisolo riportano la mortalità a valori normali.

Il cortisolo è un ormone devastante se presente in eccesso: protido-catabolico e anti-anabolico. Nel Cushing è in un range deleterio per il resto dell’organismo, e in quanto antagonista dell’insulina determina una serie di sintomi per cui porta l’organismo in una situazione di estrema fragilità: i muscoli diventano fragili, il sistema vascolare si rompe facilmente, azione iperglicemizzante. Il paziente guadagna peso se mangia: l’aumento di peso è relativo all’introito di cibo.

Quando questo eccesso di cortisolo si associa ad adenoma ipofisario, noi parliamo di Malattia di Cushing.

La sindrome di Cushing la distinguiamo il ESOGENA ed ENDOGENA.

– ESOGENA è dovuta all’assunzione di corticosteroidi sintetici, che è la causa più frequente e meno conosciuta.

– ENDOGENA l’ipercostisolismo è legato all’aumentata produzione di cortisolo.

L’endogena la distinguiamo in:

1)  ACTH-dipendente, quindi l’iperproduzione di cortisolo è legata all’eccesso di ACTH.

2) ACTH-indipendente.

L’iperproduzione di cortisolo è legata all’eccesso di ACTH che stimola il surrene. La sindrome di Cushing endogena ACTH-dipendente (80% dei casi) in realtà comprende tre sindromi diverse che possiamo chiamare:

  1. surrenalica quando la causa è nel surrene, quindi sindrome di Cushing surrenalica legata alla presenza di un adenoma o di un carcinoma oppure di un’iperplasia surrenalica;
  2. ipofisaria quando alla base della sindrome di Cushing c’è l’eccesso di ACTH, eccessiva produzione autonoma di ACTH da parte dell’ipofisi;
  3. ectopica quando l’aumento degli ormoni corticosteroidi è legata alla secrezione a livello di una neoplasia non presente nell’asse, quindi ectopica, che può produrre sia CRH che ACTH.

Dunque distinguiamo una sindrome di Cushing endogena surrenalica, una sindrome di Cushing ipofisaria e una sindrome di Cushing ectopica.

Dal punto di vista clinico questa sindrome si caratterizza per: astenia, dolore lombare legata all’osteoporosi, diminuzione o aumento dell’appetito, diminuzione della concentrazione, alterazione della memoria, insonnia, irritabilità, anomalie del ciclo, diminuzione della libido, facies a luna piena, gobba di bufalo, obesità centrale, deposito sovraclaveare del grasso (a volte il collo sparisce completamente), la cute sottile ed estremamente friabile, porpora, comparsa delle cosiddette strie rubre a livello addominale,  l’acne, l’irsutismo con l’alopecia, arretramento della linea di impianto dei capelli, ipertensione arteriosa, debolezza dei muscoli prossimali, l’edema periferico e la difficile guarigione delle ferite (numerosi di questi segni sono mostrati anche nell’immagine presenta nel caso, risposta C corretta).

Quindi la sindrome di Cushing esogena deriva da una somministrazione dall’esterno di cortisolo e di ACTH. L’endogena può essere ACTH-dipendente e ACTH-indipendente. L’ACTH-indipendente a sua volta si suddivide in ipofisaria ed ectopica. L’ACTH-indipendente comprende l’iperplasia surrenalica, l’ adenoma surrenale e il carcinoma surrenale. Per quanto riguarda l’iperplasia nodulare, quindi la forma ACTH-dipendente, la distinguiamo in macronodulare e micronodulare. Quindi abbiamo diverse forme.

Quindi sulla sindrome di Cushing endogena abbiamo detto l’ipofisaria, l’adenoma che può essere associato ad iperplasia surrenalica o anche l’iperplasia ipofisaria quando abbiamo, per esempio, il CRH ipotalamico, oppure quando alla base della sindrome c’è la produzione ectopica di CRH. Noi avremo che questo CRH dà un’iperplasia, un’iperfunzione ipofisaria che non dipende da un adenoma.

La produzione ectopica può essere di CRH o di ACTH.

La sindrome di Cushing surrenalica può essere:

  1. unilaterale e abbiamo i tumori surrenali, abbiamo detto l’adenoma singolo, l’adenoma multiplo o i carcinomi;
  2. bilaterale e abbiamo la displasia nodulare.

Poi abbiamo tutta una serie di situazioni che concretizzano quello che viene definito lo pseudo-Cushing, cioè i segni e i sintomi di un eccesso di cortisolo, ma non un eccesso di cortisolo che si verifica, fondamentalmente, nell’obesità, nella depressione e nell’alcolismo, nell’assunzione di alcol.

La sindrome di Cushing esogena può essere iatrogena e factizia: iatrogena per somministrazione terapeutica e factizia per assunzione spontanea di corticosteroidi che possono essere somministrati per via orale, inalatoria e cutanea; factizia con l’assunzione di ACTH che, per esempio, è largamente utilizzato dagli allergologi, da quelli che fanno terapia steroidea per lungo periodo. Anziché dare il cortisone, stimolano il surrene a produrre una maggiore quantità di cortisolo con l’ACTH. Un altro farmaco che può dare la sindrome di Cushing esogena è il medrossiprogesterone acetato che è un progestinico, utilizzato principalmente come anabolizzante nelle terapie di pazienti affetti da carcinoma della mammella oppure in altre patologie neoplastiche a scopo anabolizzante.

A questo consegue che c’è una soppressione comune dell’asse ipotalamo-ipofisario.

I sintomi collaterali di questo eccessivo uso di cortisolo caratterizzano una sindrome perfettamente analoga a quella data da iperfunzione del surrene.

Poi abbiamo la sindrome di Cushing endogena ACTH-indipendente surrenalica, con adenomi e carcinomi nel 20% dei casi, la displasia micronodulare e l’iperplasia macronodulare.

Nell’ipercortisolismo endogeno ACTH-dipendente vedete che l’ACTH stimola il surrene a produrre più glucocorticoidi, viene a mancare il meccanismo di feedback perché nonostante i glucocorticoidi cerchino di ridurre l’input dell’ACTH e del CRH, ciò non avviene.

Nel caso dell’ipercortisolismo endogeno ACTH-indipendente abbiamo iperproduzione di glucocorticoidi da parte del surrene che esercitano rapidamente un feedback a livello ipofisario e avremo un ACTH pari a 0.

Nel caso di sindrome primitiva, per il feedback viene messo a riposo l’asse ipotalamo-ipofisario. Nel caso di alterazione a livello superiore l’ACTH rimarrà alto nonostante i valori elevati ci cortisolo.

Qui abbiamo tre situazioni:

  1. alterazione a livello ipotalamico, l’ACTH ipofisario è aumentato ed è aumentato anche il cortisolo;
  2. alterazione a livello ipofisario, l’ipotalamo sano subisce il feedback da parte dell’ACTH ipofisario, dunque il CRH sarà diminuito. L’ACTH è aumentato e il cortisolo anche;
  3. alterazione surrenale, sia l’ACTH che il CRH sono fortemente diminuiti mentre è aumentato il cortisolo.

La sindrome di Cushing ACTH-dipendente ipofisaria è la più frequente dopo la sindrome di Cushing esogena. L’incidenza della sindrome di Cushing ipofisario è 2-6 casi per milione di individui l’anno, predilige il sesso femminile di età media tra i 20 e i 40 anni. E’ causata generalmente da adenomi ipofisari ACTH-secernenti.

Per quello che concerne l’ectopica (20% dei casi), non è prevalente nel sesso femminile come l’ipofisaria, ma prevale nel sesso maschile (quella legata a neoplasie). L’età è un pochino più avanzata: tra i 50 e i 70 anni. La causa è una neoplasia secernente ACTH o CRH, quindi è una sindrome paraneoplastica, e i tumori responsabili sono i microcitomi polmonari che sono i più frequenti, i carcinomi delle cellule pancreatiche, poi i carcinoidi.

La sindrome ectopica è più frequente negli uomini ed è data da questi tumori, generalmente tumori a piccole cellule del polmone. In questo caso la vera incidenza è misconosciuta perché questi tumori portano così rapidamente a risoluzione negativa della situazione per cui è difficile fare la diagnosi. Anche per la sindrome dell’ACTH ectopico la frequenza reale è sconosciuta. Tranne quando si tratti di adenomi o carcinomi bronchiali con un andamento più benigno: in questi casi la sindrome del’ACTH ectopico ha la sua piena estrinsecazione.

Le ipotesi per cui questi ormoni sono prodotti a livello delle neoplasie sono tante, ma fondamentalmente ciò avviene perché a livello delle neoplasie ci sono dei geni non repressi.

Nell’adenoma, nell’iperattività ipofisaria abbiamo un aumento dell’ACTH, iperplasia del surrene e malattia di Cushing. Quando abbiamo eccesso di ormoni surrenali ne deriva il blocco dell’asse. La malattia ectopica accade quando c’è un tumore broncogeno oppure un tumore del timo, ma a volte anche nello stesso surrene (per esempio un tumore nel surrene destro a volte ha dato il Cushing del surrene sinistro). In queste situazioni abbiamo che c’è l’aumento dell’ACTH che, rispetto a quello della sindrome di Cushing ipofisaria, è molto più alto però, fondamentalmente, il più delle volte non è l’ACTH puro ma la beta-lipotropina oppure il CRH che in aggiunta dà una sindrome ipofisaria. E allora diventa difficile fare una diagnosi differenziale tra le varie sindromi perché abbiamo l’ectopica aggravata da varie complicazioni a livello centrale.

Poi abbiamo le forme surrenaliche le quali sono ACTH-indipendenti e non sono molto frequenti. La sindrome di Cushing surrenale è circa il 20% delle sindromi di Cushing. Abbiamo tumori, alterazioni unilaterali e bilaterali.

Nel caso di sindrome di Cushing da alterazioni unilaterali abbiamo:

  1. adenomi nel 60% dei casi,
  2. carcinomi cortisolo-secernenti nel 40% dei casi.

Poi abbiamo la sindrome di Cushing da alterazioni bilaterali:

  1. la displasia micronodulare che distinguiamo in pigmentata nell’1% dei casi,
  2. il complesso di Carney sempre nell’1% dei casi,
  3. la sindrome McCune-Albright (che abbiamo visto a proposito della pubertà precoce),
  4. l’iperplasia macronodulare massiva,
  5. l’iperplasia surrenalica da recettori aberranti.

Dal punto di vista diagnostico, l’algoritmo si fonda su:

1) SOSPETTO: Il sospetto ovviamente viene da tutti questi sintomi che abbiamo detto. Però il sospetto deve venire anche per altre situazioni che non danno la sintomatologia completa:

– un’ ipertensione arteriosa in un soggetto in buona salute, con assenza di familiarità e un mancato controllo nonostante politerapia;

– un diabete mellito con insulino–resistenza;

– la presenza di una sindrome metabolica in soggetti giovani,  in assenza di familiarità e fattori predisponenti, la necessità di una terapia aggressiva, con cambi di terapia frequenti per l’esordio del  diabete mellito, che fanno pensare che non è solo una questione di alterazione del metabolismo ma che alla base ci sta qualcosa che la rende perdurante nel tempo;

– l’osteoporosi, soprattutto nei soggetti giovani.

– disturbi dell’umore, euforia, depressione o instabilità emotiva nonostante una politerapia di tipo ansiolitico-antidepressiva come pure un cambiamento improvviso della conformità corporea, le alterazioni del ciclo mestruale, la comparsa di irsutismo e acne in soggetti non più giovani, la riduzione della libido e della potenza sessuale sono tutti sintomi che mi portano al sospetto di ipercortisolismo più che altro subclinico.

Devo avere la conferma di ipercortisolismo e poi la localizzazione.

2) CONFERMA: qual è il protocollo per la diagnosi?

Innanzitutto definire se esiste un’ipercortisolinemia e valutare i livelli di ACTH, quindi:

– il Cortisolo libero urinario (CLU),

– la cortisolemia,

– il dosaggio dell’ACTH,

– valutare se c’è la conservazione del ritmo circadiano: gli ormoni surrenalici, il cortisolo e l’ACTH, sono secreti secondo un ritmo circadiano, che ha lo zenit al risveglio e il nadir a mezzanotte per il cortisolo, mentre l’ACTH  aumenta verso le 4 del mattino poi scende all’aumento del cortisolo.

Devo utilizzare i Test di Soppressione con il desametasone.

Il desametasone è un farmaco, un analogo sintetico del Cortisolo, che ha una potentissima azione anti-infiammatoria e viene usato perché consente di bloccare l’asse senza che poi venga dosato nelle urine e nel sangue: quindi se io blocco l’asse con il cortisolo poi quando andremo a fare gli esami troveremo una cortisolemia aumentata e quindi non potrò studiare se dipende dall’ipofisi, dal surrene o se è ectopica; se invece bloccassimo l’asse, potremo dosare la produzione del cortisolo ed è chiaro che se l’asse è bloccato non avremo cortisolemia presente, perché non lo produce l’asse e perché avremo introdotto un analogo che però non viene dosato nel sangue o nelle urine. Per questo viene utilizzato il test con il desametasone, per vedere se l’asse è soppresso o meno.

Il Test con il CRH per studiare e valutare l’integrità della secrezione dell’ACTH, mentre per esaminare  la morfologia dell’ipofisi si può fare la RM e la TC e/o la RM per il surrene.

Come detto dosiamo il cortisolo libero urinario, perché il cortisolo plasmatico è legato alla proteina di trasporto: in tutte le situazioni che portano all’aumento o alla diminuzione della proteina di trasporto (la CBG, la Cortisol Binding Globulin) c’è la possibilità di avere ipercortisolismo, che è legato al trasporto e non all’ormone stesso.

Il cortisolo plasmatico ha un altro limite, è legato al ritmo circadiano, per cui posso trovare un momento in cui è di più e un momento in cui è di meno. Quindi la prima cosa da fare allora è il cortisolo libero urinario (cioè libero dalla proteina), quindi fare almeno tre raccolte delle urine, data la possibilità che almeno nel 10% dei Cushing si possono trovare anche valori normali.

E poi si va a studiare l’asse per vedere se è soppresso o meno, o meglio se risponde alla soppressione, con la somministrazione di 1 mg di desametasone alla sera, alle 23 e dosaggio il mattino successivo di ACTH e cortisolo (sottoporsi al prelievo entro le ore 9 – perché c’è il discorso dei ritmi – a digiuno).

Quindi perché possa esserci la produzione di ACTH la notte e la produzione di cortisolo la mattina, ci deve essere un asse funzionante, se io blocco l’asse e blocco la produzione di ACTH e di CRH la mattina successiva il cortisolo deve essere diminuito. Questa è la prima cosa da fare, prima vedere se è in eccesso veramente e secondo valutare com’è l’asse, perché se risponde allora abbiamo dei pseudo-Cushing.

Quindi si va a valutare il cortisolo libero urinario, l’importante è che la raccolta delle urine sia fatta in modo adeguato: significa dire al paziente che deve urinare la mattina presto e successivamente raccogliere le urine, dalla seconda fino alla prima della mattina successiva, possibilmente alla stessa ora, prendendo le urine nella soglia delle 24 ore. Il cortisolo in condizioni fisiologiche sarà inibito se è uguale o  inferiore a 5 mg, se invece supera 1,5 mg non è da considerarsi inibito ma parzialmente inibito.

Per valutare il ritmo circadiano, valutiamo i valori di cortisolo e di ACTH alle 8, alle 18 e alle 23 .

Nei soggetti normali il ritmo segue una determinata sequenza (valore massimo al mattino, diminuisce alle 18 e si azzera alle 23) invece sia nel caso di una sindrome da ACTH ectopico, sia nel caso di una malattia di Cushing ipofisaria troviamo la mancanza di ritmo circadiano.

3) LOCALIZZAZIONE: si fa con l’ACTH, dobbiamo distinguere la forma ACTH-dipendente e la forma ACTH-indipendente.

L’ACTH ipofisario è l’alto, mentre l’ACTH ectopico è estremamente alto.

Per la localizzazione si fa la soppressione con dosaggi maggiori di desametasone: questa soppressione parte dal concetto che l’adenoma ipofisario ACTH secernente conserva la propria  capacità di rispondere all’inibizione ma per dosaggi più alti, ossia è parzialmente resistente, cioè il recettore ipofisario è parzialmente resistente, per cui se ho l’inibizione con un quantitativo più alto di cortisolo, la diagnosi  punta sull’adenoma ipofisario, cioè l’ACTH ipofisario e il CRH ipotalamico in caso di malattia di Cushing, quindi di sindrome centrale, risponde all’inibizione con livelli più alti di cortisolo, mentre l’ectopico non risponde all’inibizione, però se l’ectopico produce CRH ci complica la vita, perché risponderà pure alla grande inibizione.

Poi abbiamo il CRH-test e il test con Arginil-Vasopressina: la secrezione dell’ACTH oltre a rispondere al CRH ipotalamico risponde anche all’ADH.

Quindi le anomalie che noi troviamo nel Cushing di qualsiasi tipologia (o ipofisaria o ipotalamica o surrenalica) sono: aumentata produzione di cortisolo, aumentata escrezione urinaria di cortisolo, perdita del normale ritmo circadiano dell’ACTH e del cortisolo, resistenza relativa o assoluta al feedback negativo operato dai Glucocorticoidi.

Possiamo trovare un Cushing esogeno, Cushing endogeno, Cushing ACTH-dipendente e Cushing ACTH-indipendente.

L’ACTH-dipendente si riduce in produzione ectopica o ipofisaria mentre l’ACTH-indipendente in iperplasia surrenalica, adenoma surrenalico o carcinoma surrenalico.

Quindi se vogliamo discriminare la forma esogena e questo riusciamo a farlo con il tramite dell’anamnesi, l’esogena ACTH-indipendente che non si associa ad anomalie strutturali del surrene mentre, per quanto riguarda la forma endogena, dobbiamo distinguere se è ACTH-dipendente o ACTH-indipendente e poi capire se dobbiamo andare a studiare il surrene, l’ipofisi o il resto dell’organismo.

Quindi ACTH, soppressione con desametasone 8 mg per due giorni che darà risultati positivi nel caso di residuo ipofisario e non inibizione nel caso di ACTH ectopico.

Il CRH-test o la stimolazione con Arginil-Vasopressina per vedere se l’ipofisi è integra e quindi risponde allo stimolo.

La prima cosa da fare dopo che abbiamo stabilito l’ipercortisolemia è vedere le concentrazioni dell’ACTH che saranno differenti a seconda che si tratti di un Cushing ipofisario o una sindrome di Cushing associata a tumore surrenalico o una sindrome da ACTH ectopico.

Nel Cushing surrenalico i livelli di ACTH sono normo-bassi, molto alti sono invece nel caso del Cushing ipofisario, ma non tantissimo e livelli ancor più elevati nel caso dell’ACTH ectopico.

Il test di soppressione l’abbiamo già detto quindi passiamo alla cortisolemia delle 24 ore, questa volta non con 2 mg di desametasone ma con 8 mg.

Generalmente la piccola e la grande inibizione vengono associate in caso di un dubbio.

Si somministrano 2 mg e si raccolgono le urine al secondo giorno per valutare se c’è stata una riduzione nell’escrezione del cortisolo che avevamo rivelato alla base, poi si continua per altri due giorni con 8 mg di desametasone e poi si raccolgono le urine finali e si fa il dosaggio di cortisolo plasmatico e di ACTH.

Poi abbiamo il CRH-test: si stimola il paziente con il CRH e poi si dosano i livelli di ACTH ogni mezz’ora per due ore.

In caso di Malattia di Cushing abbiamo una risposta in quanto l’adenoma viene stimolato e produce più ormoni; assenza di risposta nel caso di ACTH ectopico e assenza di risposta anche nel caso di Cushing surrenalico.

Se è una forma ACTH-indipendente e se non è legato alla stimolazione da parte del CRH ovviamente non mi darà nessuna risposta, invece nella malattia di Cushing la risposta ci sarà. Questo è come viene fatto il CRH-test, con 10 μg endovena.

Nei casi in cui con la risonanza magnetica non si riesce ad individuare l’adenoma ipofisario, ma c’è il forte sospetto che questo sia presente, si fa il cateterismo venoso selettivo dei seni cavernosi in quanto il sangue refluo dal seno cavernoso è direttamente discendente dall’ipofisi e in particolar modo da un emilato dell’ipofisi per cui, il seno cavernoso destro raccoglierà il sangue refluo dall’ipofisi destra mentre il seno cavernoso sinistro, il sangue refluo dall’ipofisi sinistra.

Se c’è una discordanza di livelli tra il destro e il sinistro, soprattutto evidente dopo stimolazione con CRH, io farò diagnosi di lateralizzazione e di adenoma ipofisario.

Nel caso ci sia la possibilità che trattasi di ACTH ectopico rispondente alla somatostatina si fa l’Octreoscan ossia si fa la scintigrafia con l’octreotide che è una somatostatina che ha una durata d’azione di circa 7 ore, anziché dare la somatostatina nativa che ha una durata d’azione di due ore.


7 di 10 Domande

Quale tra queste condizioni non determina ipercalcemia?














La risposta corretta è la E.
Le paratiroidi, quattro piccole ghiandole endocrine localizzate sulla faccia posteriore dei lobi della tiroide, secernono il paratormone, un ormone polipeptidico che esercita il controllo sul metabolismo del calcio e, di conseguenza, sulla formazione di 1,25(OH)2 vitamina D. La secrezione di paratormone, che avviene normalmente in risposta all’ipocalcemia, determina un aumento dei livelli di calcio circolante per maggiore riassorbimento a livello intestinale, renale e per mobilizzazione del calcio osseo. La paratiroidectomia totale, ovvero l’asportazione chirurgica delle paratiroidi, comporta l’assente produzione di questo ormone, determinando disregolazione del metabolismo del calcio e una sua drastica riduzione a livello ematico; si configura quindi una condizione di ipocalcemia e non di ipercalcemia.

8 di 10 Domande

Una paziente di 58 anni si presenta presso il reparto di nutrizione clinica. La donna presenta BMI 20,9, circonferenza vita 88 cm, analisi ematochimiche (in allegato) in cui si presenta colesterolo LDL fuori range e glicemia a digiuno elevata.
In seguito ai valori di glicemia a digiuno riscontrati, si richiede curva da carico orale di glucosio (OGTT). In base ai risultati sopra riportati, la paziente presenta:

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La risposta corretta è la B.

Il diabete è un gruppo di alterazioni caratterizzate da elevati livelli di glicemia, legati ad un alterata secrezione insulinica o ad una ridotta sensibilità all’insulina. Questa alterata secrezione di insulina può andare da una forma severa in cui la produzione di insulina è nulla o quasi (diabete di tipo I, pancreasectomia) a forme intermedie modulate dall’insulino-resistenza.

L’insulino-resistenza da sola non è in grado slatentizzare un diabete mellito: serve un danno della secrezione.

Le alterazioni del metabolismo del glucosio si accompagnano poi ad alterazione del metabolismo dei lipidi e delle proteine.

Tutto questo predispone a delle complicanze vascolari (micro-vascolari a livello di rene, arti inferiori, retina / macro-vascolari a livello di cuore, cervello, arterie degli arti inferiori)

Il diabete lo possiamo classificare in 2 tipologie:

– diabete mellito di tipo I (insulino-dipendente) che può avere cause immuno-mediate o idiopatiche;

– diabete mellito di tipo II (non insulino-dipendente) è una malattia metabolica, caratterizzata da glicemia alta in un contesto di insulino-resistenza e insulino-deficienza relativa e pertanto nella gran parte dei casi il paziente non necessita di insulina;

Poi abbiamo il diabete gestazionale: forma che diventa conclamata in gravidanza e retrocede al termine della gravidanza.

Abbiamo anche delle sindromi secondarie, fra le quali:

– pancreasectomia (anche se oggi non si effettua più la rimozione del pancreas nelle pancreatiti, ma solo nei tumori),

– patologie  del pancreas esocrino (pancreatite),

– patologie endocrine (Acromegalia, sindrome di Cushing, Feocromocitoma): essendo l’insulina l’unico ormone ipoglicemizzante,

– tossicità da sostanze chimiche o farmaci (somministrazione iatrogena di glucocorticoidi [malattie infiammatorie croniche, connettivopatie…], tiazidici)

Il diabete può andare avanti per molto tempo senza dare segni di sé.

E sebbene la glicemia sia il valore di laboratorio più richiesto, si calcola che per ogni soggetto diagnosticato ce ne sia un altro non diagnosticato (prevalenza del 4% – prevalenza stimata dell’8%)

Le misurazioni della glicemia per la diagnosi di diabete prevedono:

– Dosaggio della Glicemia a Digiuno (da 12 ore ): due rilevazioni ravvicinate uguali o superiori a 126 mg/dl ,

– Dosaggio della Glicemia Random: una rilevazione glicemica > 200 mg/dl anche in paziente non a digiuno, ma necessariamente sintomatico (polidipsia, poliuria, nicturia, etc.),

– curva da Carico di Glucosio, con somministrazione di 75 g di glucosio in 200-250 ml d’acqua. Il paziente esegue una rilevazione della glicemia di base, in cui va appurato che non presenti valori superiori a 126 mg/dl (in questo caso è sbagliata l’indicazione clinica alla curva da carico). La diagnosi si fa con una rilevazione di glicemia > 200 mg/dl a 2 h dalla somministrazione della soluzione.

Il test andrebbe effettuato:

– in pazienti non ricoverati, che presentano normali condizioni di alimentazione e salute,

– dopo un normale periodo di alimentazione abituale (inutile il tentare di ridurre i carboidrati prima del test nel tentativo di eludere la diagnosi di diabete, perché paradossalmente in questo modo la cellula β non stimolata riduce il suo rilascio di insulina e i pazienti presentano valori più alti),

– in assenza di febbre,

– a digiuno dalla mezzanotte precedente,

– non fumando negli intervalli tra le rilevazioni,

– in assenza di stress.

Indicazioni alla curva da carico di glucosio:

– in presenza di una glicemia non normale (non inferiore a 100 mg/dl ma non superiore a 126 mg/dl): questo status si chiama alterata glicemia a digiuno,

– in pazienti con familiarità per diabete, dall’età di 30-40 anni,

– in pazienti con obesità, che è intrinsecamente correlata al diabete,

– in pazienti con complicanze cardiovascolari (TIA, Angina, Claudicatio), soprattutto se obesi e fumatori,

– in pazienti con ricorrenti infezioni urinarie o cutanee e glicemia a digiuno alterata.

Mediatamente il 90% dei casi è di diabete di tipo II, che si chiamava diabete dell’adulto, in quanto l’esordio è usualmente oltre i 40 anni.

Adesso tuttavia si sta assistendo ad un anticipo dell’età di esordio, e ciò è correlato al problema dell’obesità (l’Italia si avvia ad avere il primato per l’obesità infantile, soprattutto nel centro-sud) e quindi si cominciano a vedere pazienti con DM tipo II a 18 anni.

Una cosa importante è che nei gemelli monozigoti la concordanza è praticamente del 100%, mentre nel diabete di tipo I che molto spesso è considerato avere un’importante componente genetica, in realtà la concordanza tra gemelli omozigoti è solo del 50%, in quanto intervengono fattori ambientali esterni determinanti.

Se quindi è vero che nel diabete di tipo II sia presente un  condizionamento legato allo stile di vita, comunque anche in gemelli omozigoti separati alla nascita la concordanza rimane. Questa grande componente genetica non è stata ancora completamente districata.

Oltre al diabete ed alla normalità, al centro si trovano due entità di alterato metabolismo dei carboidrati:

– Alterata Glicemia a digiuno,

– Ridotta Tolleranza al Glucosio, diagnosticata mediante la curva da carico, quando i valori a 2 h sono compresi tra 140 mg/dl (normale) e 200 mg/dl (sopra il quale si parla di diabete).

Le Ultime Linee Guida per la diagnosi:

ADA criteria for the diagnosis of diabetes

Symptoms of hyperglycemia — The diagnosis of diabetes mellitus is easily established when a patient presents with classic symptoms of hyperglycemia (thirst, polyuria, weight loss, blurry vision) and has a random blood glucose value of 200 mg/dL (11.1 mmol/L) or higher.

Asymptomatic — The diagnosis of diabetes in an asymptomatic individual can be established with any of the following criteria:

Fasting plasma glucose (FPG) values ≥126 mg/dL (7.0 mmol/L)

Two-hour plasma glucose values of ≥200 mg/dL (11.1 mmol/L) during an oral glucose tolerance test (OGTT)

A1C values ≥6.5 percent (48 mmol/mol)

In the absence of unequivocal symptomatic hyperglycemia, the diagnosis of diabetes must be confirmed on a subsequent day by repeat measurement, repeating the same test for confirmation.

Escludendo dunque le altre risposte, il DM II è la risposta più coerente con il quadro clinico avendo escluso le altre diagnosi. Il Test > 200 dovrà eventualmente essere confermato.

Queste diagnosi sono importanti perché:

– 1/3 dei casi progrediscono verso il diabete,

– 1/3 dei casi permangono in questo stato,

– 1/3 dei casi possono regredire.

ma la cosa importante è che questa è una zona grigia solo per quanto riguarda la definizione, perché in realtà il rischio cardiovascolare è assolutamente già presente. Il rischio CV precede ed è in parte indipendente dall’esordio del diabete, perché condizionato dall’insulino-resistenza.

Le complicanze del diabete sono:

– micro vascolari

retinopatia diabetica

nefropatia diabetica

neuropatia diabetica

– macrovascolari

ictus

infarto

amputazione: il meccanismo è un po’ più complesso perché contempla sia la neuropatia che la vascolopatia o la microangiopatia dei vasa nervorum.

C’è poi il grande capitolo dell’importanza del diabete nella patologia cardiaca. L’85% dei pazienti diabetici muore per cause cardiovascolari.  Se andiamo a studiare i soli soggetti diabetici, la cardiopatia ischemica e lo stroke rappresentano l’80% delle cause di morte.

E mentre i diabetici rappresentano il 4% della popolazione, questo sottogruppo rappresenta il 30-40% dei pazienti degli affetti da patologia cardiovascolare (cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco, claudicatio degli arti inferiori). Tranne che nell’ictus, nelle altre patologie gli uomini sono più colpiti delle donne. Un paziente con diabete è considerato in termini epidemiologici equivalente a chi ha già avuto un infarto.

Il primo intervento terapeutico dovrebbe essere quello di intervenire sullo stile di vita, in termini di dieta ed attività fisica: quindi cercare di ridurre tutti i cibi con elevato apporto glicemico (farinacei e zuccheri semplici in primis).

I farmaci per il diabete di tipo II si dividono in diverse categorie:

– gli inibitori dell’α-glucosidasi (enzimi sull’orletto a spazzola delle cellule intestinali, che metabolizzano i carboidrati a zuccheri semplici): tali farmaci non intervengono direttamente nel metabolismo del glucosio in quanto tale, ma a livello dell’assorbimento del glucosio: a parità di carboidrati assunti, una parte non viene assorbita, e quindi crea una condizione simil-dietetica.  In Italia, di questa categoria, è presente solo l’acarbosio che viene assunto in dose di 50 mg prima di ogni pasto e ha come effetto importante il ridurre il carico di glucosio. In questo modo  riduce il sovraccarico di lavoro sulle β cellule del pancreas e riduce i picchi postprandiali di glicemia.E’ un farmaco non assorbibile, quindi ha una tossicità trascurabile (sono stati segnalati casi di aumento delle transaminasi), ma ha un effetto collaterale importante, perché è chiaro che tutti i carboidrati che non vengono assorbiti, verranno fermentati dalla flora batterica del colon, producendo una notevole quantità di gas e come tale il paziente avvertirà meteorismo e flatulenza. La compliance pertanto non è alta.  Si usa spesso in associazione con altri farmaci, essendo molto utile.

– Altro farmaco molto efficace e molto usato, attualmente al primo posto in quasi tutti gli schemi terapeutici, è la metformina. Molte volte il medico decide di prescriverlo insieme all’intervento dietetico e sullo stile di vita. Si tratta di un farmaco insulino-sensibilizzante appartenente alla classe delle biguanidi, ciò vuol dire che il farmaco migliora l’attività dell’insulina endogena: tale farmaco pertanto blocca uno dei meccanismi fisiopatologici del diabete tipo II: l’insulino-resistenza.Di fatto quindi il trattamento riduce glicemia ed insulinemia, e ciò alla lunga è importante perché riduce il rischio cardiovascolare. In studi con follow-up decennali, la metformina si è dimostrata uno dei pochi farmaci in grado di ridurre il rischio CV. Dal punto di vista degli effetti collaterali, può dare effetti avversi gastro-intestinali: se la nausea è modesta, il paziente la tollera ed anzi è utile a ridurre l’introito calorico, ma a volte la nausea costringe a sospendere il trattamento; altro effetto collaterale severo è la diarrea “esplosiva” ed  irrefrenabile. A parte questi effetti collaterali, la metformina è comunque un farmaco assolutamente efficace, laddove ci sia ancora dell’insulina endogena, ovvero in presenza di un pancreas ancora parzialmente funzionante. Il meccanismo non è ancora molto compreso, ma probabilmente agisce su alcune vie metaboliche che confluiscono nel rendere più disponibile i trasportatori del glucosio: stimolata dall’insulina, la cellula riesce quindi a metabolizzare una quantità maggiore di glucosio.

– Altri farmaci sono i glitazoni o tiazolidindioni: questa classe di farmaci aveva sollevato molto entusiasmo, perché migliorano la sensibilità all’insulina attraverso il legame con dei recettori citoplasmatici (PPAR-gamma) che regolano dei fattori di trascrizione nucleare, tra cui ci sono molti enzimi implicati nel metabolismo del glucosio o nell’espressione di alcuni geni che controllano la maturazione degli adipociti, favorendo la deposizione degli adipociti stessi nel tessuto sottocutaneo, a discapito di quello viscerale. Purtroppo non è ancora stato studiato un glitazone che agisca preferenzialmente o esclusivamente sui geni che interessano direttamente il metabolismo del glucosio, infatti ancora oggi questi farmaci agiscono anche su geni non coinvolti nell’eziopatogenesi del diabete di tipo II, dando quindi effetti collaterali come l’aumento di peso per ritenzione idrica e aumento del tessuto adiposo. Gli ultimi glitazoni introdotti, a differenza dei primi, non danno più problemi di epatotossicità. Un aspetto interessante dei glitazoni è che hanno più punti di attacco a livello dei recettori, perché controllano più geni, però sono poco specifici, quindi vanno ad interferire con tanti altri meccanismi. Inoltre questi farmaci hanno numerosi altri effetti collaterali tra cui l’osteoporosi, ed è stato anche posto il sospetto che aumentassero la probabilità di sviluppare un tumore della vescica.

– Le sulfaniluree sono farmaci secretagoghi, cioè stimolano la secrezione di insulina legandosi a dei recettori nelle cellule beta del pancreas, quindi affinchè abbiano effetto il pancreas deve essere funzionante. Infatti il meccanismo d’azione di questi farmaci interviene nella secrezione di insulina attraverso il legame con alcuni recettori che sono sulle beta-cellule, che sono i canali ATPdipendenti che regolano l’ingresso del potassio. La sulfanilurea si lega a questo recettore e viene bloccato l’ingresso di K nella cellula e al posto del K entra il calcio. Il calcio stimola le proteine contrattili, aumenta il Ca libero nel citoplasma e i granuli di secrezione che sono nella beta-cellula vengono secreti nel circolo portale e questo determina  l’effetto della sulfanilurea sulla secrezione insulinica. Il problema più grosso è che possono provocare ipoglicemia, perché la stimolazione delle sulfaniluree sulle beta-cellule non è glucosio-dipendente. Un altro effetto collaterale è l’aumento di peso, perché stimolano la secrezione di insulina. Controindicazioni all’uso di questa classe di farmaci, dove è consigliato usare insulina, sono: gravidanza, intervento chirurgico, infezione importante, trauma, insufficienza epatica o renale. Inoltre probabilmente le sulfaniluree hanno un meccanismo negativo anche a livello cardiaco e questa è una delle ragioni per cui attualmente vengono utilizzate poco.

– Le glinidi sono farmaci che hanno un meccanismo d’azione simile alle sulfaniluree, però sono un po’ meno potenti, quindi con le glinidi il rischio di ipoglicemia è ridotto ( in Italia il più usato e conosciuto è la Repaglinide).

– Le incretine sono una nuova famiglia di farmaci usati per il trattamento del diabete di tipo II. L’incretina è una sostanza prodotta dalle cellule endocrine della mucosa intestinale di derivazione neuroectodermica da cui origina anche l’ipofisi. Sono delle sostanze che stimolano la secrezione di insulina. Ce ne sono tante di queste sostanze che fanno parte di famiglie come la secretina, il glucagone e il VIP che appartengono alla stessa famiglia. Ma di queste alcune non hanno importanza fisiologica, cioè  le vere incretine sono il GIP e il GLP-1. La cosa interessante è che quello che viene considerato adesso il centro di questa situazione nuova ,conosciuta nella sua interezza da circa dieci anni ,è il pre-proglucagone. Questa molecola è  molto diffusa a livello di  intestino, pancreas e SNC ed è un grosso peptide che ha in sé delle sequenze che a seconda di  come vengono processate danno luogo a differenti ormoni.gli enzimi che lo  processano sono le  proconvertasi.  Sono molte ma le più importanti sono la  1 e la 3. Nel SNC e nell’intestino c’è una proconvertasi, nel pancreas un ‘ altra. Quando noi mangiamo a livello del duodeno ci sono le cellule K che stimolano la produzione di GIP e quando il cibo continua ad andare avanti e arriva nella seconda parte del duodeno ci sono le cellule L che, si distinguono per morfologia e affinità tintoriale dalle cellule K, che stimolano la produzione di GLP-1: quindi il cibo stimola la produzione del GIP e del GLP-1, i quali hanno una  attività di stimolo sulla secrezione di insulina. Nel diabetico le incretine sono prodotte di meno. Tali ormoni peptidici non possono essere somministrati per bocca, ma andrebbero somministrati sottocute o endovena; inoltre quando il GLP-1, che è il più potente, viene prodotto ha una emivita di pochi minuti e pertanto  il meccanismo di protezione dall’ipoglicemia si esplica in questo modo, sia attraverso il fatto che la secrezione di insulina è glucosio dipendente, sia attraverso il fatto che l’emivita delle incretine sia breve. Da un punto di vista farmacologico questo è un problema. Dovremmo darne tanto perchè viene metabolizzato rapidamente dalle DPP-4 che tagliano la sequenza degli ultimi anni del GLP-1 e lo inattivano: per tutti questi motivi l’utilizzo di questi farmaci pone ancora delle problematiche.

 

 

9 di 10 Domande

Silvia, una ragazza di 30 anni, alla 7° settimana di gestazione, giunge alla sua prima visita ginecologica pre-natale presso il Policlinico di Bari. In passato ha avuto un parto vaginale a termine successivo ad una gravidanza normo-condotta. Ha inoltre effettuato un intervento di colecistectomia a 27 anni. Attualmente riferisce di avere nausea e di sentirsi affaticata. La ragazza non ha farmaco-allergie e non assume farmaci, se non le vitamine consigliate in gravidanza. L’esame obiettivo non rivela alterazioni di rilievo. Gli esami di laboratorio richiesti mostrano i seguenti risultati:
• TSH 10.8 mU/L
• fT4 0.71 ng/dL
Cosa dovrebbe fare a questo punto il ginecologo?














La risposta corretta è la B

Silvia ha un franco ipotiroidismo, una condizione di comune riscontro in gravidanza spesso causa di infertilità. Le pazienti con ipotiroidismo clinico presentano un’aumentata incidenza di preeclampsia, basso peso alla nascita, parto pretermine e distacco intempestivo di placenta. Le ultime evidenze dimostrano che un ipotiroidismo clinico o sublinico in gravidanza sembri causare una compromissione dello sviluppo intellettuale, determinando un QI più basso. Deve dunque essere iniziata al più presto la terapia sostitutiva ormonale con tiroxina, con controllo degli esami di funzionalità tiroidea dopo 4-6 settimane.

La risposta A non è corretta

La terapia con propiltiouracile è indicata nei casi di ipertiroidismo.

La risposta C non è corretta

La terapia con metimazolo è indicata nei casi di ipertiroidismo.

La risposta D non è corretta

Continuare le visite prenatali di routine non rappresenta una scelta adeguata. Questa paziente ha un franco ipotiroidismo, per cui è necessario cominciare una terapia a base di tiroxina per prevenire un esito negativo della gravidanza con un alterato sviluppo cognitivo del feto.

La risposta E non è corretta

Ripetere gli esami di funzionalità tiroidea nel secondo trimestre potrebbe essere corretto, ma solo dopo aver cominciato una terapia sostitutiva con levotiroxina. Inoltre gli esami di controllo devono essere eseguiti a distanza di 4-6 settimane per determinare eventuali aggiustamenti della terapia.


10 di 10 Domande

Il signor Fuffi, 34 anni, diabetico, viene portato al pronto soccorso dell’Ospedale di Santa Maria Nuova da un passeggero che l’ha trovato svenuto in autobus. Viene immediatamente misurata la glicemia, che risulta essere 20 mg/dL ma viene portata a 90 mg/dL con un supporto adeguato. Il paziente si riprende, è sveglio, orientato, vigile e appare stabile. L’esame obiettivo mostra la presenza di chiazze biancastre all’interno del cavo orale. Recentemente ha subito delle modifiche della terapia insulinica. Il medico del pronto soccorso richiede una TC con mezzo di contrasto che non mostra alterazioni di rilievo. Cosa dovrebbe fare a questo punto il dottore per trattare la condizione e prevenire le complicanze?














La risposta corretta è la B

Il signor Fuffi presenta una candidiasi orale pseudomembranosa (“mughetto”), una condizione esacerbata da un’alterazione immunitaria, da antibiotici e da uno scarso controllo della glicemia nei soggetti diabetici. Se la glicemia nel sangue risulta alterata, basterà un adeguato controllo della glicemia a debellare la malattia.

 

La risposta A non è corretta

La glicemia del signor Fuffi è stata precedente normalizzata e i dosaggi di insulina sono stati corretti. Somministrare ulteriori zuccheri equivale a rifornire la candida di glucosio, creando un’ulteriore squilibrio della glicemia, che a sua volta complicherebbe la stessa micosi.

 

La risposta C è errata

L’amfotericina B è un efficace farmaco antifungino, ma presenta diversi effetti collaterali, tra cui febbre, neurotossicità, rigor. Per questo motivo viene riservato al trattamento di infezioni micotiche severe.

 

La risposta D è errata

Il mannitolo viene usato come diuretico specialmente nel contesto dell’ipertensione endocranica per edema cerebrale dovuto a trauma cranico e associato ad emorragia epidurale.

 

La risposta E non è corretta

Sebbene candida albicans possa essere un normale commensale del cavo orale, il paziente presenta un’eccessiva crescita fungina, tale da dare le caratteristiche chiazze biancastre.


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