Simulazione

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1 di 3 Domande

Nella foto è presente un soggetto deceduto a mezzo di impiccamento suicidario.
Indicare di che tipo di impiccamento si tratta:

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La risposta corretta è la D.

Per impiccamento si intende l’applicazione di un laccio intorno al collo, che da una parte è fissato ad un sostegno e dall’altra viene tirato dal peso del corpo. Lo classifichiamo come:

  • tipico, quando il nodo del laccio è posizionato a livello della nuca;
  • atipico, quando il nodo è collocato in un’altra zona;
  • completo, quando il corpo rimane sospeso in aria;
  • incompleto, quando i piedi poggiano a terra (in questo caso si tratta di un impiccamento atipico ed incompleto quindi la risposta corretta è la D).

Inoltre, si distingue in impiccamento interrotto, quando la rottura del laccio o l’arrivo di un soccorritore ne impediscono la conclusione, o simulato quando il cadavere viene sospeso. Questo tipo di morte è dovuta principalmente a tre fattori: asfittico (l’osso ioide e la lingua, dislocati contro il palato molle dalla trazione esercitata dal laccio, posto nello spazio tiro-ioideo, occludono le vie aeree); circolatorio (l’occlusione delle arterie carotidee, delle arterie vertebrali e delle vene giugulari porta ad anossia cerebrale e a stasi venosa); neurovegetativo (per stimolazione del vago e dei recettori seno-carotidei, che possono provocare l’arresto cardiaco con morte da inibizione riflessa). Tra le varie forme di asfissia quella da impiccamento è probabilmente la più semplice da diagnosticare, perché presenta un segno patognomonico, il “solco cutaneo” del collo, dovuto alla compressione del laccio che persiste anche dopo la sua rimozione. Il solco è un classico segno esterno, che può essere accompagnato da altri (come la cianosi intensa del volto, la disposizione di ipostasi nei segmenti distali degli arti e nelle regioni del bacino, le emorragie puntiformi congiuntivali e la lingua serrata tra i denti).

Oltre ai segni esterni possono essere riscontrabili anatomopatologicamente numerosi segni interni, come enfisema polmonare acuto, lacerazione delle fibre dei muscoli del collo, emorragie nel derma, rottura trasversale dell’intima della carotide comune, ecchimosi nell’avventizia delle carotidi, lacerazione delle fibre nervose del vago, ecchimosi retrofaringea o prevertebrale o emorragie al di sotto del legamento longitudinale della colonna vertebrale.


2 di 3 Domande

La donna, indicata dalla freccia nell'albero genealogico, si reca in consulenza perché vorrebbe avere più notizie sulla brachidattilia, condizione genetica che segrega nella sua famiglia. Qual è la modalità di trasmissione della malattia in esame?

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La risposta corretta è la A.

La paziente del caso clinico presenta una malattia a trasmissione autosomica dominante a penetranza incompleta.

Nelle patologie a trasmissione autosomica dominante è sufficiente che una sola copia del gene sia mutata per l’espressione fenotipica della patologia.

Le patologie X-linked sono, invece, quelle in cui il gene mutato è localizzato sul cromosoma X. Ricollegandoci al fatto che le femmine posseggano due cromosomi X e i maschi ne posseggano solo uno, è facile capire come, nelle patologie X linked recessive, le donne, quando ereditano la copia mutata del gene, siano generalmente portatrici sane, asintomatiche, oppure esprimenti una forma sfumata della patologia, invece i maschi ne siano affetti. Infatti, nelle patologie X-linked dominanti, le donne possono essere affette, anche se la copia mutata del gene viene ereditata in eterozigosi, invece i maschi possano esprimere una condizione spesso grave incompatibile con la vita.

In questo albero genealogico, in 1a generazione, l’individuo affetto è di sesso maschile, mentre in seconda generazione sono affetti sia un uomo che una donna.

Se si trattasse di una patologia X-linked, dovrebbe essere portatrice/affetta solo la donna e non l’uomo (che dal padre eredita la Y). Si tratta quindi di una patologia di tipo autosomico. Se fosse di tipo recessivo, potremmo avere diverse condizioni:

– in Ia generazione il padre affetto e la mamma sana, quindi i figli sarebbero tutti sani, perché è necessario che entrambi i geni ereditati siano mutati, e con questi presupposti escludiamo questa ipotesi;

– in Ia generazione il padre affetto (entrambi gli alleli mutati) e la madre portatrice (un allele mutato) ed essendo recessiva la patologia, non lo esprime a livello fenotipico. In questo caso avremmo il 50% di probabilità di espressione della patologia per omozigosi del gene recessivo mutato, e il 50% di probabilità di avere dei figli portatori;

In caso di patologia autosomica dominante abbiamo, invece, il 50% di probabilità di avere figli affetti e il 50% completamente sani. Se esaminiamo la III generazione però, affinché i figli esprimano la patologia, è necessario che anche l’altro genitore (estraneo al nucleo familiare di origine) abbia una mutazione di quel gene. Sarebbe un evento estremamente raro (esclusa la consanguineità fra coniugi).

Le risposte C, D, E non sono corrette.

È più probabile che la malattia sia di tipo autosomico dominante a penetranza incompleta, cioè con un gene normalmente dominante, ma che a livello fenotipico non viene espresso nel 100% dei pazienti, che lo ereditano, perché non è abbastanza “forte”.

Per questi motivi, le risposte alla lettera B, C, D ed E risultano errate.


3 di 3 Domande

Bambina di 6 anni viene portata in visita per difficoltà scolastiche: viene riferito che spesso si distrae e rimane con lo sguardo fisso qualche secondo senza rispondere ai richiami. Ha difficoltà nell'apprendimento e nella memorizzazione. Viene effettuato un EEG (allegato) che mostra, alla prova dell'iperpnea, complessi punta-onda a 3 Hz simmetrici e monomorfi. Qual è, tra le seguenti, la terapia di scelta?

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La risposta corretta è la B.

È stato eseguito un EEG, una tecnica elettrofisiologica, che consiste nella registrazione, attraverso il posizionamento di elettrodi (normalmente 20) sullo scalpo integro, dell’attività elettrica spontanea della corteccia cerebrale. L’EEG normale è caratterizzato da una marcata variabilità, che dipende dall’età del soggetto, dallo stato di vigilanza e dalla sua condizione fisiologica. L’attività predominante in un soggetto adulto sveglio è quella alfa, presente soprattutto nelle regioni parieto-occipitali e caratterizzata da un ritmo dagli 8 ai 12 Hz, ma è fisiologica anche la presenza di ritmi beta nelle regioni frontali e centrali (tra 15 e i 25 Hz) e ritmi delta, più lenti (4-7 Hz), nelle regioni frontali laterali e temporali. L’EEG può essere eseguito in diverse condizioni: veglia, deprivazione di sonno, sonno, poligrafia, dinamico. L’EEG in veglia ha una durata di circa 15-20 minuti e viene eseguito in condizioni di riposo neurosensoriale. Durante l’esame si chiede al paziente di eseguire dei test che permettono di valutare le modifiche fisiologiche, che subisce l’attività di fondo del tracciato. Due di queste prove sono la stimolazione luminosa intermittente e la prova dell’iperpnea (atti respiratori rapidi e profondi, protratti per 4 minuti). Nel caso in esame, valutata la storia clinica e anamnestica della paziente e il risultato dell’EEG, si può ipotizzare che si tratti di “assenze”, cioè eventi critici di breve durata, contraddistinti da sospensione della coscienza (manifestazione principale) e talvolta associati a componenti miocloniche, toniche, atoniche e/o vegetative. La durata di pochi secondi, il reperto dell’EEG e il fatto che vengano slatentizzate dall’alcalosi indotta dall’iperventilazione (test dell’iperpnea) ci fanno orientare verso la diagnosi di “epilessia con assenze tipiche dell’infanzia”. Si ha una buona risposta farmacologica all’acido valproico, all’etosuccimide o alla lamotrigina (anticonvulsivanti).


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