Dettagli
- Guarigione biologica delle fratture
- Effetti immediati del trauma
- Attivazione del periostio e dell’endostio
- Organizzazione dell’ematoma
- Metaplasia cartilaginea
- Consolidazione meccanica della frattura
- Rimodellamento osseo
- Guarigione delle fratture dopo osteosintesi
- Guarigione primaria della frattura con fissazione rigida e compressione interframmentaria
- Guarigione della frattura diafisaria con inchiodamento endomidollare
- Principi di terapia
- Terapia non chirurgica
- Riduzione
- Contenzione
- Rieducazione
- Terapia chirurgica
- Fissazione interna
- FISSAZIONE ESTERNA
Consolidamento delle fratture, diagnosi e trattamento
- Una lesione traumatica che interrompe la continuità di un tessuto o di un organo innesca un processo riparativo che conduce alla formazione di una cicatrice: la perdita di sostanza viene colmata da tessuto connettivo che ristabilisce la continuità del tessuto lesionato. Nell’osso la continuità deve essere ripristinata da tessuto osseo, indispensabile per il mantenimento delle funzioni scheletriche. Quando il processo di riparazione non va a buon fine, tra i frammenti di frattura si interpone tessuto connettivo cicatriziale, situazione patologica conosciuta con il termine di pseudoartrosi. Il processo di riparazione di una frattura è un fenomeno complesso in cui sono coinvolti diversi tipi di cellule e durante il quale si formano differenti tessuti, dove l’apposizione e il riassorbimento di osso coesistono (rimodellamento osseo). Con il termine callo osseo è generalmente indicato l’insieme di tessuti presenti nel focolaio di frattura e nello spazio circostante durante le varie fasi del processo riparativo. Esso assume aspetti diversi se la frattura interessa l’osso spongioso epifisario e metafisario, oppure l’osso compatto corticale della diafisi, in quanto sono diverse le condizioni locali di vascolarizzazione e la disponibilità di cellule differenziate per un’attività di sintesi di tipo osteoblastico. Numerosi fattori possono influire sull’evoluzione del processo riparativo di una frattura e tra questi hanno primaria importanza le sollecitazioni meccaniche e la terapia adottata. Quando una frattura viene trattata con un apparecchio gessato, si verifica una successione di eventi che caratterizzano il processo di guarigione biologica, ben evidente nella diafisi delle ossa lunghe. È, tuttavia, necessario premettere che nella situazione reale vi è una considerevole sovrapposizione dei fenomeni descritti: in particolare l’apposizione e il riassorbimento osseo procedono simultaneamente nello sviluppo del callo osseo, con prevalenza del primo nelle fasi precoci, del secondo in quelle più avanzate.
Guarigione biologica delle fratture
Effetti immediati del trauma
- La frattura di un osso lungo determina l’interruzione del cilindro diafisario e si accompagna a lesioni del periostio, dell’endostio e dei fasci muscolari più vicini alla frattura. Se l’energia traumatica è alta, la dislocazione dei frammenti della frattura può essere tale da lacerare tutto lo strato muscolare, la fascia, il sottocute e perfino la cute. La lacerazione dei vasi, presenti nell’osso e in tutti gli altri tessuti, ha un duplice effetto: da un lato determina la formazione di un ematoma nel focolaio di frattura, dall’altro la necrosi dei tessuti irrorati dai vasi lesi. Per le caratteristiche proprie dell’irrorazione dell’osso corticale, la zona di necrosi è più estesa nella corticale che nel periostio e nell’endostio: in una frattura centrodiafisaria la zona di necrosi corticale può estendersi su ciascun frammento per 0,5-1 cm. Il distacco di piccoli frammenti di corticale, che non mantengono una connessione con il periostio, determina la necrosi di questi ultimi.
Attivazione del periostio e dell’endostio
- Il periostio e l’endostio sono caratterizzati da uno strato germinativo a contatto con l’osso corticale che sovrintende in condizioni normali alla crescita dell’osso o al fisiologico rimodellamento dello stesso. Entrambi i processi sono caratterizzati dalla deposizione di osso lamellare (osso secondario) in cui le fibre collagene della matrice presentano un’ordinata disposizione spaziale, evidenziata dall’osservazione in luce polarizzata delle sezioni di osso corticale della diafisi. In caso di frattura queste stesse cellule dimostrano un’attività sintetica più tumultuosa, ma con caratteri diversi: l’osso apposto da queste cellule ha i caratteri dell’osso primario e assume l’aspetto a fibre collagene intrecciate con lacune osteocitarie più grandi e globose, e densità minerale minore rispetto all’osso secondario. L’attivazione degli osteoblasti è evidente dopo 24 ore dal trauma e rappresenta la conseguenza di una catena di reazioni che coinvolge numerosi mediatori biochimici sulla tipologia della risposta infiammatoria nei tessuti.
Organizzazione dell’ematoma
- L’ematoma del focolaio di frattura mostra la classica evoluzione del processo cicatriziale, con invasione di capillari dal tessuto sano circostante, fibrillogenesi, riassorbimento dell’emosiderina e dei resti del coagulo da parte dei macrofagi; tuttavia, in questo stesso tessuto cellule mesenchimali midollari si differenziano in osteoblasti, che iniziano a produrre matrice ossea. A differenza degli osteoblasti del periostio, che sono cellule già differenziate e in stato di riposo, queste sono cellule mesenchimali indifferenziate, che vengono orientate verso un’attività di tipo osteogenico da agenti induttori liberatisi nel focolaio di frattura. L’osso primario prodotto da queste cellule è detto anche callo osseo indotto.
Metaplasia cartilaginea
- Un altro tessuto sempre presente nelle fratture sperimentali, ma che probabilmente si forma anche nell’uomo, è la cartilagine, prodotta dalle stesse cellule osteogeniche del periostio, in genere nella parte più periferica del callo osseo periostale. Si pensa che le condizioni locali possano determinare il tipo di produzione osteoblastica o condroblastica delle cellule: tra queste sono state indicate la bassa tensione di ossigeno oppure la presenza di movimento a livello della frattura. Nell’evoluzione successiva le cellule cartilaginee vanno incontro a ipertrofia e sulla matrice intercellulare si depositano sali di calcio, con una progressiva formazione di tessuto osseo. Quantunque in modo più disordinato, si riproducono gli aspetti dell’ossificazione encondrale, caratteristici delle cartilagini di accrescimento.
Consolidazione meccanica della frattura
- Quando in un osso neoformato, sia esso periostale, endostale o indotto, uno dei capi della frattura si unisce con quello del lato opposto, si realizza un ponte osseo. A questo punto la frattura è virtualmente consolidata, in quanto il ponte osseo, rigido, non permette movimenti tra i due capi di frattura. Questo non corrisponde tuttavia al concetto di guarigione clinica, in quanto non necessariamente il ponte osseo possiede una resistenza sufficiente a tollerare le sollecitazioni meccaniche funzionali, soprattutto quelle degli arti inferiori. Nella pratica clinica la guarigione, considerata come liberazione dell’arto fratturato da ogni tutela esterna e libertà di carico, si basa sulla valutazione radiografica della consistenza e dell’estensione del callo osseo.
Rimodellamento osseo
- L’osso primario prodotto dalle cellule osteogeniche del callo osseo va incontro a un processo di rimodellamento (viene cioè riassorbito dagli osteoclasti e nuovo osso lamellare viene apposto dagli osteoblasti) per ricostituire i sistemi osteonici della corticale diafisaria. Il rimodellamento di una frattura diafisaria richiede tempi lunghi: nei bambini, in cui il processo è più rapido, non si completa prima di 6 mesi o 1 anno. Il ripristino della normale morfologia scheletrica va valutato attraverso il monitoraggio radiografico della frattura.
Guarigione delle fratture dopo osteosintesi
- Con il termine di osteosintesi si indica qualsiasi intervento chirurgico volto ad affrontare e/o stabilizzare i frammenti di una frattura attraverso l’impianto di svariati dispositivi (placche, viti, chiodi, fili ecc.). Alcune di queste modalità terapeutiche modificano il naturale processo di riparazione delle fratture, così come è stato descritto in precedenza.
Guarigione primaria della frattura con fissazione rigida e compressione interframmentaria
- Questo metodo richiede l’esposizione del focolaio di frattura e la riduzione anatomica dei frammenti. I capi ossei sono fissati con un mezzo di sintesi rigido, una placca avvitata, che neutralizza le sollecitazioni di taglio, torsione e flessione sul focolaio. Le estremità dei frammenti devono essere perfettamente affrontate e poste in compressione, in modo che non residui alcuno spazio vuoto tra di esse. Nelle fratture così trattate non si osserva alcuna reazione periostale, ma la consolidazione è affidata alla formazione di nuovi osteoni a ponte tra i frammenti. Gli osteoclasti, infatti, dalla zona di osso vitale scavano dei tunnel in direzione longitudinale, che attraversano l’osso devitalizzato e penetrano nell’altro frammento di frattura. Dai vasi che seguono gli osteoclasti si differenziano gli osteoblasti, i quali depongono lamelle concentriche sulla parete dei tunnel, dando origine a un nuovo osteone (Figura 01). In pratica, la consolidazione della frattura è affidata al normale processo di rimodellamento osseo. La guarigione primaria è più lenta rispetto a quella biologica e, all’esame radiografico, l’evidenza di callo osseo può essere scarsa o assente, rendendo più difficile la valutazione del grado di consolidazione.
Guarigione della frattura diafisaria con inchiodamento endomidollare
- I chiodi endomidollari sono distinti in alesati e non alesati a seconda che si proceda, prima del loro impianto, all’alesaggio (o alesatura) del canale midollare, ovvero al suo ingrandimento mediante fresatura fino al diametro necessario per inserire l’infibulo. Questa procedura presenta come inevitabile conseguenza la distruzione della rete vascolare endomidollare: non si ha perciò la formazione di callo osseo endostale e la formazione di un ponte osseo è affidata esclusivamente al callo periostale e indotto. Rispetto alle placche, i chiodi endomidollari realizzano una sintesi più elastica (non neutralizzando del tutto le sollecitazioni meccaniche a livello del focolaio di frattura) e rispettano maggiormente il processo di guarigione biologica (non esponendo il focolaio di frattura).
Figura 01

Figura 01: Guarigione primaria di una frattura a seguito di osteosintesi in compressione con placca e viti.
Principi di terapia
- La terapia delle fratture si propone come obiettivo il recupero funzionale completo del segmento fratturato senza deformità residue. Questo risultato presuppone la consolidazione della frattura senza alterazioni significative della morfologia scheletrica e il recupero della funzione articolare e muscolare. La gravità di alcune lesioni non consente tuttavia di ottenere in tutti i pazienti lo stato clinico-funzionale preesistente all’evento traumatico.
Per favorire la consolidazione della frattura è necessario stabilizzarla, cioè evitare movimenti tra i capi di frattura. Questo principio è sempre valido, anche se in tempi recenti è stata valorizzata l’utilità di sollecitazioni meccaniche controllate sull’evoluzione del processo di riparazione. Il metodo di trattamento ideale dovrebbe garantire una completa immobilità dei capi di frattura e contemporaneamente permettere la trasmissione attraverso di essi delle sollecitazioni meccaniche fisiologiche. È ovviamente difficile da realizzare nella pratica, per cui una condotta prudente consiglia di stabilizzare la frattura nel più breve tempo possibile e concedere sollecitazioni funzionali in rapporto alla solidità della sintesi e al grado di evoluzione dei processi riparativi della frattura. La scelta di una specifica terapia, conservativa oppure chirurgica, è basata sulla valutazione di alcuni fattori:- età e condizioni del paziente;
- tipo di frattura;
- disponibilità delle tecnologie e organizzazione della struttura sanitaria in cui viene curato il paziente.
- Per alcuni tipi di frattura la scelta è obbligata; per altre è possibile optare tra diversi tipi di trattamento, che presentano uguali percentuali di risultati favorevoli.
Terapia non chirurgica
- Schematicamente il trattamento della frattura può essere suddiviso in tre fasi:
- riduzione;
- contenzione;
- rieducazione.
- Questa distinzione è utile a scopo didattico, tuttavia è opportuno sottolineare che, in rapporto alle modalità di trattamento prescelte, vi può essere sovrapposizione fra le tre fasi.
Riduzione
- La riduzione consiste nel correggere la dislocazione dei frammenti di frattura, riportandoli nella posizione che essi avevano prima della lesione (riduzione anatomica) o comunque nella posizione più favorevole possibile. La riduzione è detta manuale quando è ottenuta con una manovra attuata dalle mani dell’operatore, strumentale se ottenuta con l’ausilio di appositi strumenti, pratica quest’ultima caduta ormai in disuso. Può essere inoltre estemporanea, se eseguita al momento, oppure progressiva, se ottenuta esercitando una trazione continua della frattura. Nel primo caso un trattamento anestetico o la narcosi facilitano la manovra neutralizzando la contrazione muscolare e la reazione di difesa del paziente, che ostacolano sempre la riduzione. Nel secondo caso la contrazione muscolare viene vinta da una progressiva trazione sul capo distale, che permette il riallineamento dei frammenti di frattura. La trazione può essere applicata con un bendaggio adesivo (trazione a cerotto), che non permette però di superare pesi di 4-5 kg, oppure con un filo transcheletrico, che trasmette la tensione direttamente all’osso: in questo caso si possono raggiungere pesi di 14-15 kg. L’applicazione del filo transcheletrico richiede il rispetto di tutte le regole dell’asepsi. Le sedi classiche sono il calcagno per le fratture della gamba, la tuberosità tibiale o la zona sovracondiloidea del femore per le fratture del femore, l’olecrano per le fratture dell’omero. Il filo transcheletrico viene mantenuto in tensione da una staffa, in modo che la tensione sia distribuita su tutta l’area che attraversa e non solo sulle due corticali, come avverrebbe se non fosse teso. Per le Fratture del rachide cervicale si applica una trazione che utilizza delle punte che attraversano il tavolato esterno e la diploe e si appoggiano sul tavolato interno delle ossa piatte del cranio, parietale e frontale (Halo traction e trazione di Crutchfield).
Contenzione
- La contenzione ha lo scopo di neutralizzare le sollecitazioni meccaniche sul focolaio di frattura e di mantenere la riduzione. Il grado di neutralizzazione varia in rapporto al tipo di contenzione: è minimo nella trazione continua, che può essere mantenuta anche dopo aver ottenuto la riduzione, fino alla consolidazione della frattura; è invece maggiore con l’utilizzo degli apparecchi gessati, che devono essere però eseguiti in modo corretto e ben aderenti alla cute.
Rieducazione
- La rieducazione per il recupero della funzione articolare e muscolare è successiva alla rimozione dell’apparecchio gessato nel trattamento conservativo classico, mentre può essere iniziata già durante la fase di contenzione se si utilizza la trazione continua.
Terapia chirurgica
- Se viene attuata una terapia chirurgica che comporta l’esposizione del focolaio di frattura, la riduzione viene eseguita a cielo aperto; in altri casi si può praticare la riduzione manuale o la trazione. Per la contenzione della frattura si possono utilizzare diversi sistemi, distinguibili in due grandi categorie: fissazione interna e fissazione esterna.
Fissazione interna
- La fissazione interna può essere realizzata con una sintesi rigida, in cui si utilizzano svariati mezzi di osteosintesi costituiti da fili, viti libere di diverso passo (da osso corticale oppure spongioso), placche e viti. Le modalità di applicazione di questi dispositivi sono state codificate in modo dettagliato e nell’esecuzione dell’intervento chirurgico bisogna seguire queste regole (Figura 02). Un altro tipo di fissazione interna è rappresentato dall’inchiodamento endomidollare. Anche in questo caso esistono svariati tipi di infibuli endomidollari, con caratteristiche strutturali peculiari (configurazione, elasticità ecc.) per adattarsi alle diverse necessità terapeutiche. Alcuni di essi sono illustrati nella Figura 03.
Figura 02

Figura 02: mezzi di osteosintesi per la fissazione interna. Fili e cerchiaggio metallici (a); viti da spongiosa (b); placche e viti da corticale (c); sistemi vite-placca o lama- placca (d).
FISSAZIONE ESTERNA
- La fissazione esterna è caratterizzata da fili o fiches che penetrano nell’osso a distanza dal focolaio di frattura e sono stabilizzati tra loro da un sistema di connessione esterna. Essendo le fiches solidali ai frammenti di frattura, il sistema di connessione esterno non solo solidarizza queste ultime, ma anche i frammenti. Con questi apparati è possibile diastasare, comprimere, traslare o ruotare i frammenti di frattura agendo sul sistema esterno, per cui il fissatore può essere utilizzato per la riduzione. Il recente sviluppo e perfezionamento di questi dispositivi permette oggi al chirurgo ortopedico di disporre di una grande variabilità di soluzioni tecniche. La rieducazione per il recupero della funzione articolare e muscolare con la fissazione interna o esterna è contemporanea alla fase di contenzione.
Figura 03

Figura 03: Tipi diversi di chiodi per la stabilizzazione endomidollare delle fratture. Chiodo di Küntscher (a); chiodo bloccato (b); chiodi elastici di ender (c); chiodo a fascio di marchetti-Vicenzi (d).