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1 di 3 Domande

Una donna di 67 anni giunge in visita portando in visione l'allegato esame densitometrico osseo, eseguito a livello lombare. In riferimento al grafico riportato nell'immagine, è possibile diagnosticare osteoporosi?

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La risposta esatta è la A.

La MOC, o Mineralometria Ossea Computerizzata, è un esame densitometrico che misura la massa minerale ossea (BMC) e la densità ossea, cioè la quantità e la densità dei sali di calcio contenuti nella regione scheletrica sottoposta ad esame.

Viene impiegata per valutare la predisposizione all’impoverimento minerale del tessuto osseo e studiarne l’evoluzione, così da mettere in atto i necessari provvedimenti (alimentazione e nutrizione, attività fisica, farmaci etc) utili per prevenire o rallentarne l’avanzamento. L’osteoporosi è una condizione patologica metabolica sistemica caratterizzata da una perdita della massa ossea e dal cambiamento della microarchitettura di questo tessuto, con aumento della sua fragilità e un maggior rischio di fratture, anche per traumi lievi o in loro assenza.

Si distingue una forma primitiva che si presenta più frequentemente con l’avanzare dell’età, in entrambi i sessi, e una forma secondaria causata da farmaci, patologie etc. Vi sono categorie di soggetti maggiormente colpiti come le donne in menopausa, le quali perdono l’effetto protettivo degli estrogeni sul metabolismo osseo.

Le ossa più frequentemente interessate da fratture sono le vertebre (spesso si tratta di fratture spontanee), il femore e i polsi.

E’ un esame che può essere effettuato in diversi modi: tramite ultrasuoni (su piccoli segmenti ossei), tramite TC, oppure tramite apparecchiature specifiche di ultima generazione come ad esempio la DEXA (Dual Energy X-ray Absorptiometry). La scelta della tecnica da utilizzare si basa soprattutto sul segmento osseo che si intende valutare. La DEXA, attualmente quella più utilizzata, è un esame non invasivo ma, come dice il nome, comporta l’esposizione del soggetto ai raggi X.

Indipendentemente dalla tecnica utilizzata, la MOC consente di definire lo stato di una eventuale demineralizzazione ossea mediante due indici: il T-score e lo Z-score. Il T-score è un parametro che esprime quanto il valore ottenuto si discosta dal valore del campione di riferimento (soggetti sani dello stesso sesso di età compresa tra i 25 e i 30 anni, età in cui si ha il picco di massa ossea).

Il T-score rappresenta la differenza, espressa in un numero di derivazioni standard, fra il valore individuale osservato e il valore medio della popolazione sana di riferimento. Valori di T-score compresi in un range fra +1 e -1 indicano una mineralizzazione nella norma. Secondo l’OMS, quando il valore di T-score è compreso da -1 a -2,5, si parla di osteopenia, invece quando questo valore è inferiore a 2,5, si parla di osteoporosi.

Per quanto riguarda lo Z-score invece, il valore di riferimento si ottiene dalla valutazione di una popolazione sana di soggetti dello stesso sesso e della stessa età del paziente. Tra T-score e Z-score, il primo è quello da tenere maggiormente in considerazione poiché si tratta di un valore assoluto e non relativo.

Nella nostra paziente il valore di T-score è -2,1 quindi si tratta di una condizione di osteopenia e non di osteoporosi.

La risposta B è errata.

La risposta è errata perché il valore di T-score della nostra paziente è di 2,1 quindi, in base a quanto stabilito dalla OMS, si parla di osteoporosi quando il T-score presenta valori inferiori a -2,5 .

La risposta C è errata.

Il principale parametro di riferimento nella diagnosi di osteopenia o di osteoporosi è il T-score e non lo Z-score; per questo motivo la risposta C è errata. Inoltre, la nostra paziente ha un valore di Z-score di -1,9 quindi è inferiore a -1.

La risposta D è errata.

Il principale parametro di riferimento nella diagnosi di osteopenia o di osteoporosi è il T-score e non lo Z-score; per questo motivo la risposta D è errata. Inoltre, la nostra paziente ha un valore di Z-score di -1,9 quindi è inferiore a -1,5.


2 di 3 Domande

Che cos'è lo strumento raffigurato nella fotografia?

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La risposta esatta è la C.

L’esigenza di ridurre al minimo l’invasività sul paziente ha portato all’evoluzione della tecnica chirurgica, con la nascita della chirurgia endoscopica. Si tratta di una tecnica mini-invasiva che consente lo svolgimento di interventi chirurgici anche complessi sia sul torace che sull’addome mediante l’inserzione di strumenti di diametro limitato nella cavità da esplorare, tramite alcune piccole incisioni cutanee. E’ da sottolineare che in tale approccio, i tempi e le tecniche chirurgiche eseguite con tecnica “open” devono essere percorsi allo stesso modo; ciò che cambia è solo il tipo di accesso alla cavità addominale o toracica.

Osserviamo quali sono gli strumenti appositamente dedicati a questo tipo di chirurgia: abbiamo i dispositivi ottici (ottica, fonte luminosa, cavo luce, videocamera, monitor televisivo); gli strumenti di produzione e mantenimento dell’insufflazione del gas (insufflatore di CO2); gli strumenti di accesso (ago di Veres, trocar da accesso open, trocar ottico); gli strumenti operativi (trocar, retrattori, pinze, pinze atraumatiche,forbici); le sorgenti energetiche; gli strumenti di sutura ed emostasi (loop laparoscopici, portaghi, applicatori di clips, suturatrici meccaniche); altri eventuali strumenti (aspiratore e irrigatore, dispositivi di estrazione, morcellatore, spaziatori). L’ottica, dispositivo fondamentale, è uno strumento rigido di forma tubulare in acciaio chirurgico, contenente una serie di lenti ottiche (obbiettivo, lenti di trasferimento e oculare) cilindriche separate da camere aeree, che permette di illuminare la cavità esplorata e di portare le immagini alla telecamera. All’ottica viene infatti collegato il cavo della fonte di luce ed è inoltre raccordata alla telecamera. E’ un presidio estremamente delicato e costoso che va maneggiato con attenzione. Le ottiche possono essere frontali o angolate; quella più frequentemente utilizzata nella chirurgia addominale ha un angolo di 30°. La lunghezza dello stelo è in genere di 31-33 cm. Alcune ottiche steroscopiche sono predisposte di due canali ottici indipendenti che permettono la visione tridimensionale. Lo strumento da noi osservato è appunto un’ottica laparoscopica quindi la risposta A è quella esatta.

La risposta A è errata.

Il colonscopio è uno strumento formato da una sonda flessibile, munita di telecamera e di fonte luminosa, che può essere introdotta progressivamente, dopo apposita lubrificazione, nel canale anale, nell’intestino crasso, sino ad arrivare all’ultimo tratto dell’intestino tenue, l’ileo, così da esplorare in maniera diretta la superficie interna di queste strutture. Lo strumento della nostra immagine non è un colonscopio.

La risposta B è errata.

L’ecoendoscopia è una tecnica diagnostica che associa la visione endoscopica, ottenuta mediante introduzione di una sonda flessibile all’interno del tubo digerente, all’immagine ecografica prodotta mediante una piccola sonda ecografica miniaturizzata posta sull’apice dell’endoscopio. Lo strumento nella nostra immagine non è una sonda ecoendoscopica quindi la risposta B risulta essere errata.

La risposta D è errata.

Il coledocoscopio a fibre ottiche è un endoscopio generalmente flessibile utilizzato per la visualizzazione diretta dell’albero biliare sia intra che extra epatico e che, eventualmente, può essere impiegato anche in maniera operativa, ad esempio per l’asportazione di piccole formazioni litiasiche. Lo strumento rappresentato nella nostra immagine non è un coledocoscopio.

La risposta E è errata.

I divaricatori si differenziano in divaricatori retrattori e divaricatori autostatici; vengono impiegati per ottenere una migliore visuale del campo chirurgico. I divaricatori autostatici mantengono autonomamente la posizione impostata invece quelli retrattori vengono maneggiati dai membri dell’equipe. I divaricatori retrattori di Farabeuf sono tra quelli più usati; si utilizzano per le piccole e medie profondità. Il divaricatore di Bracci è un divaricatore utilizzato nella chirurgia urologica, a livello vescicale. I retrattori di Saint Mark sono dei retrattori addominali, delle spatole di profondità, indicate soprattutto per la chirurgia pelvica e del retto.


3 di 3 Domande

La singora Trevili, piuttosto preoccupata, si reca presso il pronto soccorso dell’Ospedale Cardarelli di Napoli, con il figlio Luca di 6 anni, dopo aver notato la presenza di lesioni cutanee. Anamnesi patologica prossima: alterazioni cutanee sotto il naso e intorno alla bocca del bambino, come visibile nell’immagine sottostante. Il bimbo si presenta in ottimo stato di salute, non palesa cambiamenti comportamentali, né presenta febbre o vomito. Esame obiettivo: il bambino si presenta ben nutrito e sviluppato, non in stato d’agitazione e con piccole lesioni cutanee circolari color miele, lievemente eritematose al centro. Quale patogeno è responsabile di tale condizione?

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La risposta corretta è la E.

L’impetigine è una infezione provocata da germi piogeni che colpisce soprattutto in età pediatrica gli strati superficiali della cute. Il nome deriva dal latino impetere (“assalire”): può essere diffusa alla cute di altri distretti del corpo attraverso le dita, inoltre anche gli indumenti possono essere infetti.

Fattori di rischio importanti sono: l’umidità ambientale e la scarsa igiene.

L’impetigine può essere bollosa o non bollosa. Si caratterizzata per la presenza di croste o bolle. Colpisce, più frequentemente volto e arti.

I due patogeni più comuni sono: lo Streptococcus beta-emolitico di gruppo A (Streptococcus Pyogenes) ed in secondo luogo lo Staphylococcus aureus.

Lo Staphylococcus aureus è la causa prevalente di impetigine non-bollosa, che si caratterizza per la presenza di gruppi di vescicole o pustole che tendono ad andare incontro a rottura e danno origine a una crosta che ricopre le lesioni.

L’impetigine bollosa: è simile tranne per il fatto che le vescicole tendono a formare delle bolle, che si rompono e tendono a ricoprirsi di una patina o crosta color miele.

Lo Streptococcus Pyogenes invece è la causa principale di impetigine, soprattutto responsabile della forma bollosa tramite l’azione di una tossina esfoliativa, che determina dapprima la formazione di piccole placche rossastre su cui successivamente compaiono delle bolle a contenuto liquido chiaro, che successivamente si riempiono di pus diventando di colore giallastro; successivamente tali bolle, che sono molto fragili, si rompono formando delle croste che alla fine assume un tipico aspetto a color miele su una cute eritematosa. Queste lesioni tendono ad essere diffuse e pruriginose e  l’impetigine bollosa talvolta può determinare sintomatologia sistemica con febbre e malessere diffuso.

 


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