Dettagli
- Generalità sulle fratture
- Distacchi epifisari
- Il paziente politraumatizzato
Principi generali di traumatologia scheletrica
Generalità sulle fratture
- Con il termine di frattura si indica l’interruzione della continuità di un osso, che si verifica quando una sollecitazione meccanica ne supera i limiti di deformabilità.
- Due variabili entrano in gioco nella determinazione di una frattura: l’entità della forza lesiva (fattore estrinseco) e la resistenza dell’osso (fattore intrinseco). Un indebolimento del tessuto osseo di qualsiasi natura rende lo scheletro più suscettibile agli effetti di un trauma. La maggior parte delle fratture derivano dall’applicazione istantanea di una forza abbastanza potente da lesionare un osso strutturalmente normale. Tuttavia ciò non si verifica in due tipi di fratture.
- Fratture patologiche: si osservano in regioni scheletriche indebolite da una preesistente patologia e possono essere causate da sollecitazioni di lieve entità, del tutto innocue per l’osso normale. Le condizioni tipicamente responsabili di fratture patologiche sono le lesioni osteolitiche di natura neoplastica (benigna o maligna, primitiva o secondaria) (Immagine 01), più raramente malattie con una spiccata fragilità scheletrica (osteogenesi imperfetta, osteopetrosi ecc.). Le fratture su base osteoporotica non sono invece classificate come patologiche.
- Fratture da stress o da durata: come avviene per altri materiali, anche l’osso può rompersi per fatica, a seguito di sollecitazioni reiterate, di bassa intensità e diluite nel tempo. Le fratture da stress si osservano per lo più nell’arto inferiore, in distretti scheletrici sottoposti a elevati carichi di lavoro da parte di alcuni soggetti, soprattutto atleti: tibia e perone (corsa, danza), ossa metatarsali (marcia, danza), scafoide tarsale (corsa, salto). I fattori predisponenti sono rappresentati da aumenti incongrui, per intensità e/o durata, dell’attività, dall’uso di equipaggiamenti inadeguati (calzature), da modificazioni delle superfici su cui si pratica lo sport. La diagnosi di queste fratture può essere difficile per la sintomatologia sfumata e la scarsa evidenza radiografica.
Classificazione
- Le fratture possono essere classificate in base a criteri diversi, quali il meccanismo patogenetico, la localizzazione e le caratteristiche anatomo-patologiche. Seppure non esaustive per ogni singolo distretto, queste definizioni costituiscono la base per un linguaggio corretto e comune in ambito traumatologico, in particolare per le fratture delle ossa lunghe.
Patogenesi
- In base al meccanismo patogenetico si riconoscono i tipi di fratture elencati di seguito.
- Fratture per trauma diretto, quando l’osso si frattura nel punto di applicazione della forza lesiva. Nell’ambito di questo gruppo si possono ulteriormente distinguere:
- fratture da urto, che si verificano per contatto violento su una piccola area e si caratterizzano per la rima trasversa di frattura; nell’avambraccio e nella gamba può essere coinvolto un solo osso;
- fratture da schiacciamento, che si accompagnano a un danno esteso dei tessuti molli circostanti e sono per lo più comminute;
- fratture penetranti, denominate anche fratture da arma da fuoco, che sono prodotte da proiettili a bassa o alta velocità, questi ultimi assai più lesivi sull’osso e i tessuti molli.
- Fratture per trauma indiretto, quando la forza lesiva agisce a distanza dal focolaio di frattura. In questo secondo gruppo si possono osservare (Immagine 02):
- fratture per flessione: essendo l’osso più resistente in compressione che in trazione, il tessuto sul versante convesso cede per primo, generando una rima di frattura trasversa con o senza un terzo frammento sul versante concavo;
- fratture per torsione: questo meccanismo produce una rima di frattura spiroide;
- fratture per compressione: l’effetto più tipico è a livello dell’osso spongioso (per esempio dei corpi vertebrali), dove si produce una compattazione delle trabecole;
- fratture per trazione: la sede di inserzione di un muscolo può essere avulsa da una violenta contrazione, con distacco di porzioni più o meno estese di osso;
- fratture per azione combinata (flessione, compressione, torsione).
- Fratture per trauma diretto, quando l’osso si frattura nel punto di applicazione della forza lesiva. Nell’ambito di questo gruppo si possono ulteriormente distinguere:
- Anche la violenza dell’evento traumatico è correlata alla patogenesi, e in relazione a essa possono essere differenziate fratture a bassa energia (come quelle risultanti da una caduta accidentale) e fratture ad alta energia (per esempio a seguito di un incidente stradale).
Localizzazione
- Nelle ossa lunghe, in base al livello di lesione, le fratture possono essere:
- diafisarie (al terzo prossimale, medio o distale);
- metafisarie (prossimali o distali);
- epifisarie (prossimali o distali);
- se estese a più livelli, si distinguono fratture metaepifisarie e metadiafisarie;
- in alcuni casi il livello di lesione è identificato da reperi anatomici specifici: fratture sottotrocanteriche di femore, fratture sovracondiloidee di omero e femore ecc.
- Se la rima di frattura si estende alla superficie articolare cartilaginea di un segmento scheletrico, la frattura è definita articolare. Nel trattamento di queste lesioni il ripristino di un piano cartilagineo normale è auspicabile per prevenire patologie articolari secondarie (artrosi post-traumatica).
Anatomia patologica
- L’entità del danno scheletrico consente di differenziare:
- fratture incomplete, denominate anche infrazioni, in cui l’interruzione della continuità dell’osso è parziale. Un tipo particolare è rappresentato dalle fratture “a legno verde” dei bambini, dove il robusto periostio non si interrompe e viene così preservato il manicotto connettivale che riveste il cilindro osseo diafisario (Immagine 03);
- fratture complete, a loro volta suddivise in:
- composte, quando i frammenti di frattura conservano rapporti tali da non modificare la normale configurazione dell’osso;
- scomposte, quando la forma del segmento scheletrico appare alterata dallo spostamento o dalla compenetrazione dei frammenti.
- Per la diafisi delle ossa lunghe si descrivono classicamente quattro tipi di scomposizione, spesso combinati tra loro (Immagine 04):
- ad latus, per spostamento trasversale dei frammenti;
- ad longitudinem, con accorciamento dell’osso per sovrapposizione dei frammenti;
- ad axim, per angolazione dei frammenti;
- ad peripheriam, per rotazione di un frammento sul suo asse longitudinale.
- In rapporto alla configurazione della rima di frattura le fratture sono denominate (Immagine 05):
- trasverse;
- oblique;
- spiroidi;
- pluriframmentarie;
- comminute.
- In base al numero dei focolai osservabili in un singolo osso lungo si distinguono fratture:
- unifocali, di gran lunga le più frequenti;
- bifocali, osservate soprattutto nel femore e nella tibia (Immagine 06);
- trifocali o plurifocali, di riscontro eccezionale.
- Un ultimo, ma non per importanza, criterio classificativo riguarda l’integrità del rivestimento cutaneo:
- nelle fratture chiuse la cute non presenta interruzioni della sua continuità;
- nelle fratture esposte la cute è lesionata e il focolaio di frattura è in comunicazione con l’ambiente esterno; il danno dei tessuti molli perischeletrici è variabile e sono stati distinti tre gradi di gravità dell’esposizione per guidare le scelte terapeutiche.
Immagine 01
Immagine 01. Frattura patologica della diafisi omerale: l’interruzione della continuità dell’osso si è verificata in corrispondenza di una voluminosa cisti ossea.
Immagine 02
Immagine 02. I meccanismi di frattura per trauma indiretto. Per flessione: i frammenti di frattura appaiono angolati ed è presente un terzo frammento sul lato concavo (a); per torsione: le rime di frattura al terzo distale della tibia e al terzo prossimale del perone presentano un andamento spiroide (b); per compressione: il corpo vertebrale appare schiacciato per frammentazione e compattazione della struttura trabecolare (c); per trazione: la tuberosità tibiale è stata strappata dalla violenta contrazione del quadricipite (d).
Immagine 03
Immagine 03. Frattura “a legno verde” della clavicola sinistra ( ->) in un bambino di 3 anni: i frammenti di frattura appaiono angolati, ma ancora contenuti dal robusto periostio presente a questa età.
Immagine 04
Immagine 04. Classificazione delle fratture scomposte in relazione allo spostamento dei frammenti: trasversale (ad latus) (a); longitudinale (ad longitudinem) (b); angolare (ad axim) (c); rotatorio (ad peripheriam), in questo caso associato a spostamento angolare (d).
Immagine 05
Immagine 05. Le diverse configurazioni della rima di frattura: trasversa (a); obliqua (b); spiroide (c); pluriframmentaria (d); comminuta (e).
Immagine 06
Immagine 06. Frattura bifocale del femore destro.
Processi riparativi dell’osso
- Una lesione traumatica che interrompe la continuità di un tessuto o di un organo innesca un processo riparativo che conduce alla formazione di una cicatrice: la perdita di sostanza viene colmata da tessuto connettivo che ristabilisce la continuità del tessuto lesionato. Nell’osso la continuità deve essere ripristinata da tessuto osseo, indispensabile per il mantenimento delle funzioni scheletriche. Quando il processo di riparazione non va a buon fine, tra i frammenti di frattura si interpone tessuto connettivo cicatriziale, situazione patologica conosciuta con il termine di pseudoartrosi. Il processo di riparazione di una frattura è un fenomeno complesso in cui sono coinvolti diversi tipi di cellule e durante il quale si formano differenti tessuti, dove l’apposizione e il riassorbimento di osso coesistono (rimodellamento osseo).
- Con il termine callo osseo è generalmente indicato l’insieme di tessuti presenti nel focolaio di frattura e nello spazio circostante durante le varie fasi del processo riparativo. Esso assume aspetti diversi se la frattura interessa l’osso spongioso epifisario e metafisario, oppure l’osso compatto corticale della diafisi, in quanto sono diverse le condizioni locali di vascolarizzazione e la disponibilità di cellule differenziate per un’attività di sintesi di tipo osteoblastico.
- Numerosi fattori possono influire sull’evoluzione del processo riparativo di una frattura e tra questi hanno primaria importanza le sollecitazioni meccaniche e la terapia adottata.
- Quando una frattura viene trattata con un apparecchio gessato, si verifica una successione di eventi che caratterizzano il processo di guarigione biologica, ben evidente nella diafisi delle ossa lunghe. È tuttavia necessario premettere che nella situazione reale vi è una considerevole sovrapposizione dei fenomeni descritti: in particolare l’apposizione e il riassorbimento osseo procedono simultaneamente nello sviluppo del callo osseo, con prevalenza del primo nelle fasi precoci, del secondo in quelle più avanzate.
Guarigione biologica delle fratture
EFFETTI IMMEDIATI DEL TRAUMA
- La frattura di un osso lungo determina l’interruzione del cilindro diafisario e si accompagna a lesioni del periostio, dell’endostio e dei fasci muscolari più vicini alla frattura. Se l’energia traumatica è alta, la dislocazione dei frammenti della frattura può essere tale da lacerare tutto lo strato muscolare, la fascia, il sottocute e perfino la cute.
- La lacerazione dei vasi, presenti nell’osso e in tutti gli altri tessuti, ha un duplice effetto: da un lato determina la formazione di un ematoma nel focolaio di frattura, dall’altro la necrosi dei tessuti irrorati dai vasi lesi. Per le caratteristiche proprie dell’irrorazione dell’osso corticale, la zona di necrosi è più estesa nella corticale che nel periostio e nell’endostio: in una frattura centrodiafisaria la zona di necrosi corticale può estendersi su ciascun frammento per 0,5-1 cm. Il distacco di piccoli frammenti di corticale, che non mantengono una connessione con il periostio, determina la necrosi di questi ultimi.
ATTIVAZIONE DEL PERIOSTIO E DELL’ENDOSTIO
- Il periostio e l’endostio sono caratterizzati da uno strato germinativo a contatto con l’osso corticale che sovrintende in condizioni normali alla crescita dell’osso o al fisiologico rimodellamento dello stesso. Entrambi i processi sono caratterizzati dalla deposizione di osso lamellare (osso secondario) in cui le fibre collagene della matrice presentano un’ordinata disposizione spaziale, evidenziata dall’osservazione in luce polarizzata delle sezioni di osso corticale della diafisi. In caso di frattura queste stesse cellule dimostrano un’attività sintetica più tumultuosa, ma con caratteri diversi: l’osso apposto da queste cellule ha i caratteri dell’osso primario e assume l’aspetto a fibre collagene intrecciate con lacune osteocitarie più grandi e globose, e densità minerale minore rispetto all’osso secondario. L’attivazione degli osteoblasti è evidente dopo 24 ore dal trauma e rappresenta la conseguenza di una catena di reazioni che coinvolge numerosi mediatori biochimici sulla tipologia della risposta infiammatoria nei tessuti.
ORGANIZZAZIONE DELL’EMATOMA
- L’ematoma del focolaio di frattura mostra la classica evoluzione del processo cicatriziale, con invasione di capillari dal tessuto sano circostante, fibrillogenesi, riassorbimento dell’emosiderina e dei resti del coagulo da parte dei macrofagi; tuttavia in questo stesso tessuto cellule mesenchimali midollari si differenziano in osteoblasti, che iniziano a produrre matrice ossea. A differenza degli osteoblasti del periostio, che sono cellule già differenziate e in stato di riposo, queste sono cellule mesenchimali indifferenziate, che vengono orientate verso un’attività di tipo osteogenico da agenti induttori liberatisi nel focolaio di frattura. L’osso primario prodotto da queste cellule è detto anche callo osseo indotto.
METAPLASIA CARTILAGINEA
- Un altro tessuto sempre presente nelle fratture sperimentali, ma che probabilmente si forma anche nell’uomo, è la cartilagine, prodotta dalle stesse cellule osteogeniche del periostio, in genere nella parte più periferica del callo osseo periostale. Si pensa che le condizioni locali possano determinare il tipo di produzione osteoblastica o condroblastica delle cellule: tra queste sono state indicate la bassa tensione di ossigeno oppure la presenza di movimento a livello della frattura.
- Nell’evoluzione successiva le cellule cartilaginee vanno incontro a ipertrofia e sulla matrice intercellulare si depositano sali di calcio, con una progressiva formazione di tessuto osseo. Quantunque in modo più disordinato, si riproducono gli aspetti dell’ossificazione encondrale, caratteristici delle cartilagini di accrescimento.
CONSOLIDAZIONE MECCANICA DELLA FRATTURA
- Quando in un osso neoformato, sia esso periostale, endostale o indotto, uno dei capi della frattura si unisce con quello del lato opposto, si realizza un ponte osseo. A questo punto la frattura è virtualmente consolidata, in quanto il ponte osseo, rigido, non permette movimenti tra i due capi di frattura. Questo non corrisponde tuttavia al concetto di guarigione clinica, in quanto non necessariamente il ponte osseo possiede una resistenza sufficiente a tollerare le sollecitazioni meccaniche funzionali, soprattutto quelle degli arti inferiori. Nella pratica clinica la guarigione, considerata come liberazione dell’arto fratturato da ogni tutela esterna e libertà di carico, si basa sulla valutazione radiografica della consistenza e dell’estensione del callo osseo.
RIMODELLAMENTO OSSEO
- L’osso primario prodotto dalle cellule osteogeniche del callo osseo va incontro a un processo di rimodellamento (viene cioè riassorbito dagli osteoclasti e nuovo osso lamellare viene apposto dagli osteoblasti) per ricostituire i sistemi osteonici della corticale diafisaria.
- Il rimodellamento di una frattura diafisaria richiede tempi lunghi: nei bambini, in cui il processo è più rapido, non si completa prima di 6 mesi o 1 anno. Il ripristino della normale morfologia scheletrica va valutato attraverso il monitoraggio radiografico della frattura.
Guarigione delle fratture dopo osteosintesi
- Con il termine di osteosintesi si indica qualsiasi intervento chirurgico volto ad affrontare e/o stabilizzare i frammenti di una frattura attraverso l’impianto di svariati dispositivi (placche, viti, chiodi, fili ecc.). Alcune di queste modalità terapeutiche modificano il naturale processo di riparazione delle fratture, così come è stato descritto in precedenza.
GUARIGIONE PRIMARIA DELLA FRATTURA CON FISSAZIONE RIGIDA E COMPRESSIONE INTERFRAMMENTARIA
- Questo metodo richiede l’esposizione del focolaio di frattura e la riduzione anatomica dei frammenti. I capi ossei sono fissati con un mezzo di sintesi rigido, una placca avvitata, che neutralizza le sollecitazioni di taglio, torsione e flessione sul focolaio. Le estremità dei frammenti devono essere perfettamente affrontate e poste in compressione, in modo che non residui alcuno spazio vuoto tra di esse.
- Nelle fratture così trattate non si osserva alcuna reazione periostale, ma la consolidazione è affidata alla formazione di nuovi osteoni a ponte tra i frammenti. Gli osteoclasti, infatti, dalla zona di osso vitale scavano dei tunnel in direzione longitudinale, che attraversano l’osso devitalizzato e penetrano nell’altro frammento di frattura. Dai vasi che seguono gli osteoclasti si differenziano gli osteoblasti, i quali depongono lamelle concentriche sulla parete dei tunnel, dando origine a un nuovo osteone (Immagine 07). In pratica, la consolidazione della frattura è affidata al normale processo di rimodellamento osseo.
- La guarigione primaria è più lenta rispetto a quella biologica e, all’esame radiografico, l’evidenza di callo osseo può essere scarsa o assente, rendendo più difficile la valutazione del grado di consolidazione.
GUARIGIONE DELLA FRATTURA DIAFISARIA CON INCHIODAMENTO ENDOMIDOLLARE
- I chiodi endomidollari sono distinti in alesati e non alesati a seconda che si proceda, prima del loro impianto, all’alesaggio (o alesatura) del canale midollare, ovvero al suo ingrandimento mediante fresatura fino al diametro necessario per inserire l’infibulo. Questa procedura presenta come inevitabile conseguenza la distruzione della rete vascolare endomidollare: non si ha perciò la formazione di callo osseo endostale e la formazione di un ponte osseo è affidata esclusivamente al callo periostale e indotto. Rispetto alle placche, i chiodi endomidollari realizzano una sintesi più elastica (non neutralizzando del tutto le sollecitazioni meccaniche a livello del focolaio di frattura) e rispettano maggiormente il processo di guarigione biologica (non esponendo il focolaio di frattura).
Principi di terapia
- La terapia delle fratture si propone come obiettivo il recupero funzionale completo del segmento fratturato senza deformità residue. Questo risultato presuppone la consolidazione della frattura senza alterazioni significative della morfologia scheletrica e il recupero della funzione articolare e muscolare. La gravità di alcune lesioni non consente tuttavia di ottenere in tutti i pazienti lo stato clinico-funzionale preesistente all’evento traumatico.
- Per favorire la consolidazione della frattura è necessario stabilizzarla, cioè evitare movimenti tra i capi di frattura. Questo principio è sempre valido, anche se in tempi recenti è stata valorizzata l’utilità di sollecitazioni meccaniche controllate sull’evoluzione del processo di riparazione. Il metodo di trattamento ideale dovrebbe garantire una completa immobilità dei capi di frattura e contemporaneamente permettere la trasmissione attraverso di essi delle sollecitazioni meccaniche fisiologiche. È ovviamente difficile da realizzare nella pratica, per cui una condotta prudente consiglia di stabilizzare la frattura nel più breve tempo possibile e concedere sollecitazioni funzionali in rapporto alla solidità della sintesi e al grado di evoluzione dei processi riparativi della frattura.
- La scelta di una specifica terapia, conservativa oppure chirurgica, è basata sulla valutazione di alcuni fattori:
- età e condizioni del paziente;
- tipo di frattura;
- disponibilità delle tecnologie e organizzazione della struttura sanitaria in cui viene curato il paziente.
- Per alcuni tipi di frattura la scelta è obbligata; per altre è possibile optare tra diversi tipi di trattamento, che presentano uguali percentuali di risultati favorevoli.
Terapia non chirurgica
- Schematicamente il trattamento della frattura può essere suddiviso in tre fasi:
- riduzione;
- contenzione;
- rieducazione.
- Questa distinzione è utile a scopo didattico, tuttavia è opportuno sottolineare che, in rapporto alle modalità di trattamento prescelte, vi può essere sovrapposizione fra le tre fasi.
RIDUZIONE
- La riduzione consiste nel correggere la dislocazione dei frammenti di frattura, riportandoli nella posizione che essi avevano prima della lesione (riduzione anatomica) o comunque nella posizione più favorevole possibile.
- La riduzione è detta manuale quando è ottenuta con una manovra attuata dalle mani dell’operatore, strumentale se ottenuta con l’ausilio di appositi strumenti, pratica quest’ultima caduta ormai in disuso.
- Può essere inoltre estemporanea, se eseguita al momento, oppure progressiva, se ottenuta esercitando una trazione continua della frattura. Nel primo caso un trattamento anestetico o la narcosi facilitano la manovra neutralizzando la contrazione muscolare e la reazione di difesa del paziente, che ostacolano sempre la riduzione. Nel secondo caso la contrazione muscolare viene vinta da una progressiva trazione sul capo distale, che permette il riallineamento dei frammenti di frattura. La trazione può essere applicata con un bendaggio adesivo (trazione a cerotto), che non permette però di superare pesi di 4-5 kg, oppure con un filo transcheletrico, che trasmette la tensione direttamente all’osso: in questo caso si possono raggiungere pesi di 14-15 kg.
- L’applicazione del filo transcheletrico richiede il rispetto di tutte le regole dell’asepsi. Le sedi classiche sono il calcagno per le fratture della gamba, la tuberosità tibiale o la zona sovracondiloidea del femore per le fratture del femore, l’olecrano per le fratture dell’omero. Il filo transcheletrico viene mantenuto in tensione da una staffa, in modo che la tensione sia distribuita su tutta l’area che attraversa e non solo sulle due corticali, come avverrebbe se non fosse teso. Per le Fratture del rachide cervicale si applica una trazione che utilizza delle punte che attraversano il tavolato esterno e la diploe e si appoggiano sul tavolato interno delle ossa piatte del cranio, parietale e frontale (Halo traction e trazione di Crutchfield).
CONTENZIONE
- La contenzione ha lo scopo di neutralizzare le sollecitazioni meccaniche sul focolaio di frattura e di mantenere la riduzione. Il grado di neutralizzazione varia in rapporto al tipo di contenzione: è minimo nella trazione continua, che può essere mantenuta anche dopo aver ottenuto la riduzione, fino alla consolidazione della frattura; è invece maggiore con l’utilizzo degli apparecchi gessati, che devono essere però eseguiti in modo corretto e ben aderenti alla cute.
RIEDUCAZIONE
- La rieducazione per il recupero della funzione articolare e muscolare è successiva alla rimozione dell’apparecchio gessato nel trattamento conservativo classico, mentre può essere iniziata già durante la fase di contenzione se si utilizza la trazione continua.
Terapia chirurgica
- Se viene attuata una terapia chirurgica che comporta l’esposizione del focolaio di frattura, la riduzione viene eseguita a cielo aperto; in altri casi si può praticare la riduzione manuale o la trazione.
- Per la contenzione della frattura si possono utilizzare diversi sistemi, distinguibili in due grandi categorie: fissazione interna e fissazione esterna.
FISSAZIONE INTERNA
- La fissazione interna può essere realizzata con una sintesi rigida, in cui si utilizzano svariati mezzi di osteosintesi costituiti da fili, viti libere di diverso passo (da osso corticale oppure spongioso), placche e viti. Le modalità di applicazione di questi dispositivi sono state codificate in modo dettagliato e nell’esecuzione dell’intervento chirurgico bisogna seguire queste regole (Immagine 08). Un altro tipo di fissazione interna è rappresentato dall’inchiodamento endomidollare. Anche in questo caso esistono svariati tipi di infibuli endomidollari, con caratteristiche strutturali peculiari (configurazione, elasticità ecc.) per adattarsi alle diverse necessità terapeutiche. Alcuni di essi sono illustrati nella Immagine 09.
FISSAZIONE ESTERNA
- La fissazione esterna è caratterizzata da fili o fiches che penetrano nell’osso a distanza dal focolaio di frattura e sono stabilizzati tra loro da un sistema di connessione esterna. Essendo le fiches solidali ai frammenti di frattura, il sistema di connessione esterno non solo solidarizza queste ultime, ma anche i frammenti. Con questi apparati è possibile diastasare, comprimere, traslare o ruotare i frammenti di frattura agendo sul sistema esterno, per cui il fissatore può essere utilizzato per la riduzione. Il recente sviluppo e perfezionamento di questi dispositivi permette oggi al chirurgo ortopedico di disporre di una grande variabilità di soluzioni tecniche.
- La rieducazione per il recupero della funzione articolare e muscolare con la fissazione interna o esterna è contemporanea alla fase di contenzione.
Immagine 07
Immagine 07. Guarigione primaria di una frattura a seguito di osteosintesi in compressione con placca e viti.
Immagine 08
Immagine 08. Mezzi di osteosintesi per la fissazione interna. Fili e cerchiaggio metallici (a); viti da spongiosa (b); placche e viti da corticale (c); sistemi vite-placca o lamaplacca (d).
Immagine 09
Immagine 09. Tipi diversi di chiodi per la stabilizzazione endomidollare delle fratture. Chiodo di Küntscher (a); chiodo bloccato (b); chiodi elastici di Ender (c); chiodo a fascio di Marchetti-Vicenzi (d).
Complicanze
- Il decorso clinico di una frattura può essere complicato da due gruppi principali di eventi avversi:
- disturbi della consolidazione;
- complicanze associate (regionali o sistemiche).
Disturbi della consolidazione
- L’obiettivo del trattamento di ogni frattura è la guarigione dei frammenti ossei in una posizione tale da garantire una completa ripresa funzionale in assenza di dolore.
- I disturbi della consolidazione sono complicanze del processo riparativo che quasi sempre si associano a un risultato clinico sfavorevole, richiedendo ulteriori terapie per la loro cura.
RITARDO DI CONSOLIDAZIONE E PSEUDOARTROSI
- Il tempo necessario per ottenere la consolidazione di una frattura varia in rapporto alla sede e al tipo di lesione, all’età del paziente e alla metodica di trattamento. Sulla base dell’esperienza clinica e tenendo conto dei fattori sopracitati, è possibile prevedere per ogni singola frattura, in un certo gruppo di età e dopo uno specifico trattamento, un tempo indicativo necessario per la consolidazione. È opportuno sottolineare che questo periodo è approssimativo e che anche il giudizio sulla consolidazione di una frattura si presta a una certa discrezionalità.
- La consolidazione dovrebbe comportare una strutturazione del callo osseo, valutata in termini di estensione e mineralizzazione sui radiogrammi, sufficiente a sopportare le normali sollecitazioni funzionali del segmento osseo interessato. Da una definizione di questo tipo ne consegue che per considerare guarita una frattura degli arti inferiori è necessario un grado di strutturazione e di resistenza meccanica del callo osseo molto maggiore rispetto a una frattura dell’arto superiore, dove le sollecitazioni meccaniche sull’osso sono di minore entità.
- Una volta trascorso il tempo di guarigione presunto per una specifica frattura, l’assenza di elementi comprovanti la riparazione della lesione configura il cosiddetto ritardo di consolidazione. In questa situazione è possibile che, seppure in un tempo più lungo, si giunga infine alla consolidazione, talvolta attuando provvedimenti terapeutici incruenti (sollecitazioni funzionali controllate, terapie fisiche) per raggiungere lo scopo. I fattori locali che sembrano avere un ruolo determinante nell’inibire il processo di consolidazione sono:
- l’ampia diastasi dei frammenti di frattura;
- il movimento tra i frammenti;
- l’interposizione di tessuti molli;
- la lesione estesa del periostio;
- l’infezione del focolaio.
- Se il processo di guarigione della frattura è compromesso in modo completo e irreversibile, si ha la pseudoartrosi, definita non solo dal fattore temporale, ma anche da aspetti morfologici. Dal punto di vista anatomo-patologico la pseudoartrosi si caratterizza per l’interposizione di tessuto fibroso e fibro-cartilagineo tra i frammenti di frattura: questo tessuto può andare incontro a degenerazione fibrinoide e dare origine a una pseudocavità articolare tra i frammenti. L’attività osteogenica periostale ed endostale si esaurisce in una neoproduzione ossea che oblitera il canale midollare, talvolta formando una mensola alla periferia della diafisi. Lo spessore e l’elasticità del tessuto fibroso influenzano il grado di motilità preternaturale, che differenzia la pseudoartrosi lassa da quella serrata.
- Radiograficamente i frammenti ossei possono apparire ravvicinati e slargati alle loro estremità oppure distanti e riassorbiti: tali aspetti, che rispecchiano modalità patogenetiche diverse del disturbo di consolidazione, permettono di distinguere la pseudoartrosi in ipertrofica (Immagine 10), atrofica (Immagine 11) e oligotrofica (quest’ultima con caratteristiche intermedie rispetto alle precedenti) (Immagine 12).
- La mancata guarigione della frattura comporta la perdita della normale resistenza meccanica del segmento scheletrico e si traduce in quadri clinici di diversa gravità in base alla sede interessata. La motilità preternaturale, più o meno accentuata in base alle caratteristiche della pseudoartrosi, si accompagna di solito a dolore e impotenza funzionale.
- La terapia è chirurgica ed è guidata dai seguenti principi:
- rimuovere il tessuto fibroso, fibro-cartilagineo e necrotico interposto tra i frammenti ossei;
- favorire la rivascolarizzazione, ripristinando la pervietà del canale midollare;
- portare a contatto i capi di frattura e realizzare una fissazione stabile degli stessi;
- colmare la perdita di sostanza ossea con materiale biologico a componente cellulare osteogenica ( autotrapianto osseo, cellule mesenchimali) oppure con materiale biologico e sostanze osteoinducenti (allotrapianto, Bone Morphogenetic Protein o BMP);
- se si utilizzano fissatori esterni, stimolare una ripresa dell’attività osteogenica con la distrazione/compressione meccanica della pseudoartrosi.
VIZIOSA CONSOLIDAZIONE
- Questo disturbo della consolidazione si verifica quando i frammenti di frattura guariscono in posizione non corretta, esitando in deformità con rilevanza clinico-funzionale e/o estetica. Le viziose consolidazioni possono causare l’angolazione (in valgo, varo, recurvato o procurvato), l’allungamento, l’accorciamento o la rotazione dell’osso fratturato.
- La terapia chirurgica è giustificata dalla presenza di disturbi clinicamente rilevanti e si basa sull’esecuzione di osteotomie correttive. In questi interventi, volti a ripristinare una normale morfologia scheletrica, si pratica una frattura chirurgica dell’osso malconsolidato con appositi strumenti, quindi si stabilizzano i frammenti nella posizione desiderata con mezzi di osteosintesi diversi.
Immagine 10
Immagine 10. Evoluzione in pseudoartrosi di una frattura pluriframmentaria diafisaria della tibia destra. Quadro radiografico dopo osteosintesi con vite e cerchiaggio (in sede di frattura), associata a fissazione esterna (a). A distanza di 4 mesi la frattura non appare ancora consolidata. Nonostante la reazione periostale, la rima di frattura è ancora evidente e la vite appare rotta; la tibia mostra inoltre un’angolazione in varismo (b). Controllo a 1 anno dal trauma che mostra pseudoartrosi ipertrofica. Le estremità dei frammenti appaiono slargate dal tentativo di riparazione periostale, il canale midollare è obliterato e l’angolazione in varo della tibia si è ulteriormente accentuata. Il paziente lamenta persistente dolore al carico (c).
Immagine 11
Immagine 11. Pseudoartrosi atrofica a seguito di osteosintesi di frattura comminuta esposta del femore distale. In questo caso non è presente alcuna reazione periostale e l’intervallo tra i frammenti ossei appare ampio. Il mezzo di sintesi mostra segni di mobilizzazione, con aree di riassorbimento osseo intorno alla lama ( -> ) e alle viti (>).
Immagine 12
Immagine 12. Pseudoartrosi oligotrofica del terzo distale della diafisi tibiale, in esito a frattura esposta.
Complicanze associate
- Come conseguenza di una frattura si possono osservare diverse lesioni associate, che coinvolgono strutture adiacenti all’osso fratturato (complicanze regionali), fino a coinvolgere l’organismo in toto (complicanze sistemiche). Da un punto di vista didattico si distinguono complicanze precoci e tardive.
COMPLICANZE PRECOCI
- In questa categoria rientrano tutte quelle condizioni che si presentano al momento del trauma o nei giorni immediatamente successivi a esso. Comprendono:
- le lesioni locali cutanee, capsulo-legamentose, vascolari e nervose;
- le sindromi compartimentali;
- patologie sistemiche, quali la malattia tromboembolica, l’embolia grassosa, l’Insufficienza Respiratoria acuta (ARDS), la disfunzione multiorgano (MODS), lo shock emorragico, il tetano e la gangrena gassosa.
- COMPLICANZE ACUTE LOCALI Le complicanze acute locali (cutanee, capsulo-legamentose, vascolari e nervose) vanno sempre ricercate durante la visita iniziale per escludere lesioni iatrogene causate da una non corretta esecuzione delle manovre di riduzione o delle procedure chirurgiche, e sono specifiche del distretto corporeo coinvolto. Esempi sono la lesione del nervo radiale in una frattura diafisaria dell’omero oppure lesioni dell’arteria poplitea per fratture-lussazioni del ginocchio.
- SINDROMI COMPARTIMENTALI Le sindromi compartimentali sono entità cliniche caratterizzate dalla sofferenza ischemica dei tessuti contenuti in alcuni compartimenti anatomici a pareti inestensibili, per effetto di un’elevazione della pressione tissutale al loro interno. Tale fenomeno può essere causato da un aumento del contenuto (emorragia, edema, infiammazione ecc.) o da una compressione esterna (bendaggi stretti).
- La sindrome di Volkmann è la Sindrome compartimentale che colpisce le strutture contenute nella loggia anteriore dell’avambraccio;
- La diagnosi di Sindrome compartimentale può essere difficile e deve essere tempestiva, al fine di evitare danni anatomici irreversibili. Il sospetto deve insorgere in tutti i casi di tumefazione, dolore sproporzionato e tensione cutanea, soprattutto se associati a iperestesie nel territorio di distribuzione dei nervi. Il trattamento è essenzialmente legato alla decompressione, rimuovendo eventuali compressioni esterne e/o eseguendo in urgenza una fasciotomia.
- MALATTIA TROMBOEMBOLICA La tromboembolia è una delle complicanze più frequenti in ambito ortopedico: soprattutto la trombosi venosa profonda (TVP) prossimale degli arti inferiori espone a un rischio elevato di embolia polmonare. Questa condizione è legata sia al trauma (lesione endoteliale nella triade di Virchow) sia all’immobilità (stasi) e può essere favorita da una predisposizione individuale (ipercoagulabilità). Clinicamente la TVP può essere del tutto silente e deve essere ricercata con il classico segno di Homans (flessione dorsale del piede ad arto esteso) e valutando la dolorabilità alla palpazione locale.
- L’embolia polmonare si rende evidente con “fame d’aria”, dispnea, tosse, tachipnea, tachicardia, fino ai casi più eclatanti di collasso cardio-polmonare.
- La diagnosi strumentale della TVP si avvale dell’ecocolor-Doppler; l’embolia, sospettata in presenza di alterazioni dell’emogasanalisi (abbassamento di pO2 arteriosa) ed elettrocardiografiche (tachicardia e inversione delle onde T nelle derivazioni anteriori), può essere identificata con una scintigrafia polmonare ventilatoria e perfusoria o con un’angio TC.
- Per la specifica terapia si rimanda ai testi di Medicina Interna, ricordando però la necessità di effettuare sempre la prevenzione con eparine a basso peso molecolare in alcune fratture (rachide, bacino, arti inferiori), sempre che non vi sia un elevato rischio emorragico
- EMBOLIA GRASSOSA L’embolia grassosa (o adiposa) è una complicanza meno frequente, più spesso conseguente a traumi pelvici, fratture di ossa lunghe (diafisi femorale) e alesaggio endomidollare (procedura eseguita per l’inserimento di chiodi nel canale diafisario durante l’osteosintesi di fratture). È dovuta al passaggio in circolo di globuli di grasso che vanno a ostruire arteriole e capillari di polmoni, cervello, reni e cute.
- La sintomatologia varia in base alla sede: spesso si presenta con dispnea, cianosi, confusione, vertigini, eruzioni petecchiali fino al coma.
- Anche in questo caso è fondamentale la prevenzione con trattamento precoce e appropriato della frattura (riducendo al minimo la mobilità dei frammenti), mantenimento dei liquidi, monitoraggio dell’equilibrio elettrolitico e ossigenazione sanguigna.
- Il trattamento è di competenza rianimatoria, volto al sostegno delle funzioni vitali fino alla risoluzione della fase acuta.
COMPLICANZE TARDIVE
- Le possibili complicanze a comparsa tardiva includono l’artrosi post-traumatica, la necrosi avascolare, le ossificazioni eterotopiche, l’algodistrofia, l’osteomielite e tutte le possibili complicanze legate al mezzo di sintesi utilizzato (rottura, mobilizzazione ecc.) e all’allettamento prolungato (piaghe da decubito, infezioni polmonari e urinarie, malattia tromboembolica).
- ARTROSI POST-TRAUMATICA È dovuta alle incongruenze post-traumatiche delle superfici articolari, alla presenza di frammenti liberi intrarticolari e al lungo periodo di immobilizzazione. Per questo motivo le fratture articolari, quelle in cui la rima si estende fino alla superficie cartilaginea, sono le più difficili da trattare.
- NECROSI AVASCOLARE POST-TRAUMATICA Va sospettata in tutti quei casi in cui il dolore e l’invalidità si protraggono più del dovuto durante il periodo di convalescenza, cioè tra le 8 settimane e i 2 anni.
- Alcune sedi scheletriche sono predisposte in modo particolare a questa complicanza post-traumatica, per la presenza di una vascolarizzazione di tipo terminale: testa del femore, testa dell’omero, scafoide carpale e astragalo. Se le misure adottate per prevenire la necrosi tissutale risultano inefficaci, l’evoluzione verso l’artrosi post-traumatica è pressoché inevitabile e il trattamento sarà rivolto alla correzione degli esiti (protesi articolari, artrodesi ecc.)
- OSSIFICAZIONI ETEROTOPICHE Si tratta di formazioni ossee che si vengono a formare nei tessuti posti in prossimità di fratture, più spesso di gomito, anca e spalla. La loro incidenza è maggiore in caso di riduzione cruenta e fissazione interna delle fratture. Altre condizioni favorenti sono rappresentate dal ritardo nell’intervento, da concomitanti lesioni del sistema nervoso centrale (traumi cranici) e dal sesso maschile. Le misure preventive nelle fratture a rischio includono l’utilizzo di FANS (indometacina) o la terapia radiante a basse dosi; ossificazioni eterotopiche responsabili di limitazioni funzionali richiedono l’escissione chirurgica.
- ALGODISTROFIA Rappresenta una sindrome clinica caratterizzata dall’associazione di sintomatologia dolorosa e impotenza funzionale di una porzione dell’arto con disturbi vasomotori e trofici dei tessuti molli e dello scheletro.
- Il termine atrofia o morbo di Sudek è utilizzato per indicare la localizzazione all’arto inferiore (piede e gamba). Il processo algodistrofico, oggi denominato sindrome dolorosa regionale complessa, coinvolge perciò tutti i tessuti di un determinato segmento e ciò dà ragione del suo polimorfismo sia sul piano clinico sia sul piano radiografico.
- Il trattamento è in genere fisioterapico, supportato dalla terapia medica a base di FANS, benzodiazepine e difosfonati.
- OSTEOMIELITE Un processo suppurativo del midollo osseo con coinvolgimento secondario del tessuto scheletrico rappresenta un’evenienza frequente nelle fratture esposte. La patogenesi dell’infezione è legata all’inoculazione diretta di microrganismi dall’ambiente esterno. L’osteomielite può anche derivare dalla contaminazione del campo operatorio al momento dell’intervento di osteosintesi. La presenza di mezzi di sintesi interni rende particolarmente difficile l’eradicazione dell’infezione scheletrica.
Distacchi epifisari
- I Distacchi epifisari sono fratture la cui rima passa, del tutto o in parte, attraverso la cartilagine di accrescimento (o fisi). Questa struttura rappresenta un punto di minore resistenza alle sollecitazioni traumatiche che possono agire sullo scheletro del bambino e dell’adolescente. Il distacco può coinvolgere un nucleo di accrescimento epifisario (alle estremità delle ossa lunghe) o apofisario (per esempio epitroclea omerale, tuberosità tibiale ecc.).
- Si possono distinguere:
- distacchi puri, nei quali la rima di frattura interessa esclusivamente la fisi;
- distacchi misti, nei quali la soluzione di continuo si estende al tessuto osseo contiguo.
- Le sedi scheletriche più frequentemente interessate sono l’epifisi distale del radio (prima in assoluto), quella prossimale dell’omero, il condilo omerale esterno e l’epifisi distale della tibia.
Classificazione
- La classificazione di Salter-Harris prevede la distinzione dei Distacchi epifisari in cinque tipi, in rapporto al decorso della rima di frattura a livello metaepifisario (Immagine 13) Tale classificazione ha importanti risvolti dal punto di vista terapeutico e prognostico.
- Tipo I. I Distacchi epifisari di questo tipo sono lesioni pure della cartilagine di accrescimento, mentre le componenti ossee epifisarie e metafisarie non sono attraversate dalla rima di frattura (Immagine 14).
- Tali lesioni possono presentarsi con diversi gradi di scomposizione e vanno ridotte tempestivamente per evitare il ricorso alla riduzione a cielo aperto; il periodo di contenzione è compreso fra le 3 e le 4 settimane.
- La prognosi è di regola favorevole, poiché la rima di frattura tende a non interessare lo strato proliferativo della fisi, localizzandosi nello strato degenerativo e calcifico, e non vi è invasione di vasi sanguigni al suo interno.
- Tipo II. In questo caso oltre alla lesione della cartilagine, si osserva il distacco di un frammento osseo metafisario. Rappresenta il tipo più comune di distacco epifisario e, in presenza di grossi frammenti e ampie superfici coinvolte, è preferibile ricorrere al trattamento chirurgico per evitare disturbi della crescita in sede di lesione. Come per il tipo I, la prognosi è in genere favorevole.
- Tipo III. Questo tipo di lesione interessa più spesso cartilagini di accrescimento in via di chiusura, con sede preferenziale a livello della tibia distale. La rima di frattura si porta dalla cartilagine di accrescimento all’epifisi, raggiungendo il cavo articolare. Pur eseguendo una riduzione ottimale, indispensabile nelle fratture articolari, la lesione ha una prognosi più sfavorevole rispetto ai tipi precedenti (in caso di cartilagine ancora fertile) a causa dell’interessamento dello strato cartilagineo proliferativo, situato sul versante epifisario della fisi, e al possibile attraversamento di vasi sanguigni
- Tipo IV. La rima di frattura attraversa la superficie articolare, l’epifisi, la cartilagine di accrescimento e la metafisi. Le sedi preferenziali sono rappresentate dal condilo laterale dell’omero (con rischio di sviluppo di deformità in valgismo del gomito se non trattato in modo adeguato) e dal malleolo tibiale.
- Tipo V. Costituisce la lesione meno facilmente identificabile e nello stesso tempo quella con la prognosi più sfavorevole. Il distacco epifisario di tipo V si verifica per schiacciamento della fisi, con conseguente danno anatomo-funzionale irreversibile della porzione di cartilagine interessata; spesso tale lesione viene individuata solo nel momento in cui si manifesta il disturbo della crescita.
Complicanze
- La più tipica complicanza dei Distacchi epifisari è l’epifisiodesi, ovvero la formazione di un ponte osseo transfisario che determina la chiusura parziale o totale della cartilagine di accrescimento.
- Questo evento sfavorevole si può tradurre in due diversi disturbi della crescita scheletrica:
- arresto simmetrico, con ridotta lunghezza dell’arto, in caso di fusione metaepifisaria totale o centrale;
- arresto asimmetrico, con deviazione angolare dell’arto, in caso di fusione metaepifisaria periferica di un osso o in caso di fusione di un singolo osso a livello di avambraccio e gamba.
Terapia
- L’esito del trattamento è influenzato da tre fattori:
- tipo di lesione (prognosi peggiore nei tipi III, IV e V);
- tempestività della diagnosi;
- adeguatezza della terapia.
- Il riconoscimento e l’inquadramento della lesione sono ottenuti con l’esecuzione di uno studio radiografico preciso, includendo talvolta radiogrammi comparativi dell’arto controlaterale o ricorrendo a metodiche panesploranti (TC o RM).
- Una terapia corretta non può prescindere dalla riduzione anatomica della fisi, che può essere poi contenuta con apparecchi gessati o stabilizzata con mezzi di sintesi poco invasivi (fili di Kirschner) per evitare un danno iatrogeno della cartilagine di accrescimento. Tentativi di riduzione ritardata rischiano di peggiorare il quadro anatomo-clinico, in virtù della rapidità con cui inizia il processo di consolidazione.
Il paziente politraumatizzato
- Il trauma rappresenta la più frequente causa di morte al di sotto dei 40 anni. Si definisce politraumatizzato un paziente che, a seguito di lesioni multiple di natura traumatica, si trova in condizioni tali da richiedere una terapia intensiva.
- Un corretto approccio terapeutico al paziente politraumatizzato, soprattutto in fase iniziale, è l’elemento critico per ridurne la mortalità, che si aggira intorno al 20%. L’intervento deve essere quanto più tempestivo possibile e articolato in due fasi, tra loro strettamente coordinate:
- primo soccorso sul luogo dell’incidente e durante il trasporto;
- inquadramento diagnostico-terapeutico dopo l’ospedalizzazione.
- La prima ora dopo il trauma (golden hour) è considerata il periodo più importante per la prognosi di questi pazienti.
Primo soccorso
- Dopo avere protetto il luogo in cui avviene l’intervento di pronto soccorso (aspetto di primaria importanza negli incidenti stradali), il traumatizzato viene posto nella posizione più idonea per eseguire il primo intervento terapeutico.
- In caso di mobilizzazione, per esempio prima dell’estrazione da un veicolo, è opportuno tutelare il rachide cervicale con un collare (Immagine 15) o, in sua assenza, mantenerlo in posizione ferma e in asse con il tronco.
- La posizione da preferire è quella denominata laterale di sicurezza, con il paziente adagiato sul fianco, il collo esteso e ruotato lateralmente in modo che, in caso di vomito, il materiale rigurgitato non occluda l’albero respiratorio.
- In caso di incoscienza va assicurata la pervietà delle vie aeree superiori, rimuovendo l’eventuale materiale estraneo che possa ostruirle, la mandibola va anteposta per impedire la caduta della lingua (se disponibile, a tal fine si può utilizzare la cannula oro-faringea).
- Se il paziente non respira spontaneamente va ventilato mediante respirazione artificiale, meglio con maschera e pallone AMBU; se vi è assenza dei polsi periferici (carotideo) è necessario il massaggio cardiaco.
- Nel caso di emorragie esterne bisogna eseguire un’emostasi temporanea, mediante compressione o con l’applicazione di lacci alla radice degli arti.
- Se si instaura una forte ipotensione fino allo shock ipovolemico (Box 02), dovuto spesso a emorragie interne non diagnosticate sul luogo dell’incidente, il paziente va posto in posizione supina con gli arti inferiori sollevati (posizione di Trendelenburg), per favorire il ritorno venoso, e va coperto, per prevenire l’ipotermia.
- Se possibile, è opportuno incannulare una vena per somministrare plasma expanders ed emoderivati. Evidenti fratture delle ossa lunghe vanno allineate e stabilizzate provvisoriamente con ferule o tutori di fortuna.
- Una volta stabilizzate a sufficienza le condizioni generali, il politraumatizzato va posto con le opportune manovre su una barella, meglio se modulare e rigida (Immagine 16), e trasportato sul veicolo con il quale verrà trasferito nell’ospedale più vicino, dotato delle attrezzature e competenze necessarie per far fronte alle patologie presenti.
Ospedalizzazione
- Dopo l’arrivo in ospedale vanno monitorate la funzionalità cardio-respiratoria, la diuresi (catetere vescicale), i parametri ematochimici e i valori emogasanalitici. Si procede a incannulare due vene di grosso calibro o meglio una vena centrale per la somministrazione di farmaci e il controllo della pressione venosa centrale (PVC).
- Nella diagnostica per immagini, la sequenza degli accertamenti sarà in parte dettata dal quadro clinico. Si dovranno eseguire:
- Rx del torace (il drenaggio di pneumo- o emotorace deve essere tempestivo);
- Rx del rachide e del bacino;
- Rx dei segmenti scheletrici con sospette fratture;
- ecografia dell’addome (milza) con eventuale integrazione di TC spirale.
- Le lesioni vascolari gravi vanno riconosciute (talvolta con il ricorso all’angiografia) e trattate, se possibile, con approccio percutaneo (embolizzazioni, stent intraluminali).
- In caso di trauma cranico deve essere eseguita una TC dell’encefalo e l’eventuale trattamento neurochirurgico d’urgenza con successivo monitoraggio della pressione intracranica (PIC). È quindi essenziale un accurato esame neurologico; la presenza di otorragia e/o liquorrea è fortemente suggestiva per una lesione del sistema nervoso centrale.
Algoritmo terapeutico per le lesioni scheletriche
- Le lesioni scheletriche vanno diagnosticate, valutate e trattate secondo alcune priorità. Alcune fratture, prima del loro trattamento, richiedono uno studio più approfondito, ma non per questo ritardato, con TC.
- Le fratture complesse del bacino vanno stabilizzate in urgenza, preferibilmente con un fissatore esterno, al fine di contribuire alla stabilizzazione del quadro emodinamico.
- Le lussazioni (anca, spalla, gomito) vanno ridotte per limitare il rischio di complicanze (necrosi asettica, lesione di tronchi nervosi e vascolari periferici).
- Le Fratture vertebrali instabili o mieliche possono richiedere un intervento in urgenza di decompressione sulle strutture nervose e stabilizzazione.
- Le fratture o le lesioni esposte vanno accuratamente deterse, con rimozione dei tessuti necrotici e contaminati, e sintetizzate in urgenza (fissatori esterni); l’esposizione può essere lasciata aperta per successivi lavaggi oppure coperta immediatamente con interventi di chirurgia ricostruttiva, il tutto per ridurre l’incidenza di infezioni.
- Le fratture diafisarie della ossa lunghe degli arti inferiori vanno sintetizzate il prima possibile (chiodi endomidollari) a paziente stabilizzato, oppure in situazioni emodinamicamente instabili con fissatori esterni secondo i principi del “Damage Control” per ridurre il rischio di complicanze (embolia grassosa, sindrome da Insufficienza Respiratoria acuta); nell’impossibilità di eseguire un intervento in tempi brevi, è preferibile porre l’arto in trazione transcheletrica.
- Le fratture articolari (ginocchio, acetabolo), quelle vertebrali amieliche e stabili, e quelle degli arti superiori possono essere trattate in un secondo momento, dopo stabilizzazione definitiva del paziente.
- Durante queste fasi il paziente va monitorato e le funzioni vitali (respirazione, circolazione, funzionalità epatica e renale) controllate e sostenute; va inoltre impostata un’idonea profilassi antibiotica e antitrom-boembolica.
- Una volta eseguite le terapie indifferibili e stabilizzate le condizioni generali del paziente, si può programmare il trattamento di eventuali altre lesioni e riprendere i trattamenti provvisori trasformandoli in definitivi.
- Il concetto è quello di non aggiungere al trauma acuto (FIRST HIT) un ulteriore danno con trattamenti eccessivamente invasivi (SECOND HIT), con conseguenze potenzialmente negative.
- Da cui il diffuso uso in urgenza di fissatori esterni temporanei secondo i principi del “DAMAGE CONTROL”, che rappresenta un’evoluzione rispetto al precedente concetto della “EARLY TOTAL CARE”, trattamento immediato definitivo di tutte le lesioni, da proporre solo in caso di pazienti emodinamicamente stabili in situazioni ideali.
- La terapia precoce delle fratture permette di iniziare in tempi brevi la fase riabilitativa e la mobilizzazione del paziente, riducendo il rischio di complicanze generali (polmoniti, malattia tromboembolica, ulcere da decubito) e locali (rigidità articolari, atrofie muscolari, retrazioni).
- L’approccio multidisciplinare integrato, unito al miglioramento delle conoscenze e delle tecniche di rianimazione anche extraospedaliere, con un’aggressività chirurgica precoce, modulata però su un oculato bilancio tra costi e benefici (Damage Control), ha permesso di ridurre la mortalità dei politraumatizzati, ma anche l’entità delle invalidità croniche.
Immagine 13
Immagine 13. Classificazione di Salter-Harris dei Distacchi epifisari in cinque tipi.
Immagine 14
Immagine 14. Quadro radiografico di distacco epifisario distale di tipo I della tibia destra; il perone appare fratturato in una sede superiore rispetto alla cartilagine di accrescimento ( -> ).
Immagine 15
Immagine 15. Nel trasporto del paziente politraumatizzato, l’applicazione di un collare è utile per evitare la mobilizzazione del rachide cervicale.
Immagine 16
Immagine 16. Esempio di barella spinale per il trasporto dei politraumatizzati in posizione protetta: modulare (a), rigida (b) e con cinghie multiple (c).
Box 01
Quadro clinico delle fratture
- La diagnosi clinica di una frattura può essere più o meno difficoltosa in relazione alla sede e alle caratteristiche della lesione. I sintomi e segni da valutare nel sospetto di una frattura includono:
- il dolore, sempre presente anche se talvolta di bassa intensità; è accentuato dalla palpazione e dalla mobilizzazione del segmento interessato;
- l’atteggiamento di difesa antalgico (per esempio, nelle fratture di clavicola, il sostegno dell’arto superiore e l’inclinazione del capo verso la lesione);
- l’impotenza funzionale, con limitazione anche completa della mobilità;
- la deformità, che può essere causata dallo spostamento dei frammenti (angolazione, rotazione) e/o dalla tumefazione prodotta dall’emorragia;
- la mobilità preternaturale e la crepitazione, per discontinuità e attrito tra le superfici di frattura. Sono segni di certezza e devono essere valutati con estrema cautela al fine di evitare un possibile aggravamento della lesione (scomposizione della frattura, lesioni vascolo-nervose).
- La diagnosi di frattura è confermata dall’esame radiografico, che deve essere condotto con tecnica rigorosa (almeno due proiezioni ortogonali includendo le articolazioni a entrambe le estremità dell’osso traumatizzato). Alcune fratture possono essere di difficile riconoscimento e si deve ricorrere alla TC per dirimere il dubbio diagnostico.
Box 02
Shock Traumatico
- Il termine shock identifica una particolare sindrome a eziologia assai varia (traumatica, cardiaca, allergica, infettiva ecc.), che si caratterizza per la comparsa di un’insufficienza circolatoria periferica acuta, alla quale fa seguito un’ipoperfusione multiorgano, con insufficiente apporto di ossigeno e ridotta eliminazione di cataboliti. In assenza di terapia, lo shock mostra una tendenza evolutiva verso l’aggravamento, attraverso meccanismi emodinamici e bioumorali “a cascata”.
- Lo shock traumatico mostra una particolare complessità, poiché tre fattori compartecipano alla sua determinazione:
- fattore neurogeno: entra in gioco nelle fasi iniziali (reazione simpatico-adrenergica) e svolge un ruolo nella patogenesi di alcune lesioni organiche (per esempio le ulcere da stress);
- fattore ipovolemico: sostenuto dalle emorragie, sia esterne sia interne;
- fattore tossico: dipendente dalle lesioni tissutali, con l’immissione in circolo di mediatori chimici (sostanze vasoattive, enzimi, Potassio ecc.) che contribuiscono al disturbo circolatorio e alle sofferenze d’organo.